Ce l’abbiamo quasi fatta. Il livello dei prezzi segna un +0,1% rispetto a un anno fa. Ma l’inflazione, rispetto al mese scorso, è calata di un decimo di punto. Il dato è coerente con la frenata, mese dopo mese, della crescita: ormai è scontato che il Pil non aumenterà nel 2014 più dello 0,2-0,3%, comunque assai meno delle previsioni del governo, ufficialmente ferme allo 0,6%. Lo ha riconosciuto lo stesso Matteo Renzi in un’intervista, attribuendo la frenata a “difficoltà della congiuntura internazionale”. Peccato che a smentire questa lettura ci abbia pensato li dato del Pil degli Stati Uniti, su del 4%. O, ancor più significativa, l’accelerazione del Pil della Spagna, +0,6% nel secondo trimestre con la prospettiva di chiudere il 2014 al +1,2%.
Non cala solo l’inflazione o il tasso di crescita. I tassi di interesse pagati dallo Stato sono in frenata, in sintonia con quel che avviene nel resto d’Europa: un Btp a dieci anni rende il 2,60%, un titolo tedesco di analoga durata rende l’1,12%. Uno Schatz biennale, al lordo delle commissione, rende lo 0,02-0,03%. Ovvero, il mercato sconta che la Bce terrà almeno fino al 2016 i tassi a livello zero ed è disposta a pagare un prezzo (comunque inferiore a quello del deposito dei fondi presso la Bce) pur di parcheggiare la liquidità. Si vedrà a settembre se i prestiti Tltro della banca centrale europea saranno in grado di rivitalizzare il mercato del debito. Per ora non possiamo che limitarci a prender atto che, di fronte a un encefalogramma dei tassi Ue piatto, il 2,60% pagato dal Tesoro, seppur ai minimi storici, è in realtà un interesse reale molto alto, insostenibile nel tempo per un Paese che avanza al ritmo dello 0,2-0,3%.
La dinamica in discesa dei prezzi non è compatibile, in ogni caso, con una prospettiva di ripresa: un’inflazione in calo, in presenza di tassi di interesse stabili, si traduce in una manovra monetaria restrittiva in una fase in cui la nostra economia ha invece bisogno di misure in senso opposto. Il costo di finanziamento del debito pubblico si riduce, la Bce porta i tassi di riferimento a minimi storici, ma le imprese non si accorgono di tutto questo, vedono anzi tassi di interesse reali in costante rialzo.
Certo, la disoccupazione, da mesi, mostra segnali di stabilizzazione, financo di miglioramento. Ma la consolazione è offuscata dal dato peggio che drammatico dei senza lavoro tra i 15 e i 29 anni: il 47,3%, lo specchio drammatico di una generazione perduta. Così come il rapporto Svimez sul Mezzogiorno segnala un Paese spaccato in due. Ove la metà meridionale è ormai andata alla deriva. Ma le cose, se possibile, peggiorano ancora. Basti, a mo’ di esempio, il dramma della Basilicata che nel 2013 ha perduto 6 punti di prodotto interno lordo. Eppure si tratta di una regione dal tessuto civile sano, che ha finora contenuto il rischio criminalità e che in passato ha registrato più di un fenomeno di imprenditorialità diffusa.
Può permettersi l’Italia di lasciar andare alla deriva questa regione? Non è il caso, di fronte a questi numeri, di affrontare in maniera non ideologica, il tema dello sviluppo industriale e dello sfruttamento delle risorse energetiche? La Basilicata è una delle aree più ricche di petrolio dell’Europa continentale, risorsa finora sfruttata quasi con fastidio, per non compromettere, come si usa dire, “il futuro turistico e l’ambiente incontaminato”. Intanto, i turisti vanno in Grecia o in Spagna.
Eppure mai come oggi il futuro del Bel Paese si gioca nel Mezzogiorno. Per capirlo, basta considerare le cifre della Caporetto nazionale dalla nascita dell’euro in poi. Dal 2001 al 2013, l’Italia è l’unico Paese che nel suo complesso non ha tratto beneficio alcuno dalla moneta unica. Questo perché, accanto al dato comunque debole del Nord (+2% di crescita in 12 anni) figura la catastrofe del Sud: -7 punti, ovvero addirittura -13% dal 2008, quando la recessione è diventata realtà. È la conferma che la classe dirigente nazionale e locale è rimasta del tutto inerte di fronte a vantaggi potenziali della moneta e ai contributi della politica comunitaria, naufragando a mano a mano che le nuove regole rendevano più difficili i trasferimenti clientelari o protetti.
Perfino in Grecia il saldo è positivo +1,6%, per non parlare dei primi della classe (Germania +16%) o della Spagna (+19%), a conferma della capacità di Madrid di sfruttare nonostante l’inciampo della crisi, il propellente europeo. Cosa che serve a spiegare soprattutto la tenacia e la determinazione con cui Madrid, nonostante problemi non meno gravi dei nostri, abbia saputo affrontare e realizzare le riforme suggerite da Bruxelles, dalla nuova legge sul lavoro al taglio dei costi dell’amministrazione pubblica.
È questa la situazione alla vigilia di una stagione che non s’annuncia affatto facile. I tassi di interesse Usa e del Regno Unito stanno per iniziare il moto verso il rialzo. Si profilano segnali di indebolimento del renmimbi in parallelo al rafforzamento del dollaro. Nel 2015 potremmo fronteggiare la combinazione tra tassi reali in ascesa e concorrenza più aggressiva della Cina, concorrente diretto in molti settori. Basta così perché non è bello far da Cassandra, soprattutto nei pressi di Ferragosto. Ma, come hanno segnalato autorevoli commentatori, è l’ora di dire agli italiani la verità, senza illuderli che “la crisi prima o poi finirà”, quasi fosse un temporale. Invece ci vogliono azioni coerenti e immediate, altrimenti la richiesta di flessibilità alla Ue provocherà solo una risata generale: mica dei tedeschi, ma di spagnoli, irlandesi, portoghesi, gente che le riforme le ha fatte pur con grande sofferenza. Chiedete loro cosa ne pensano del progetto Madia di anticipare la pensione per alcune migliaia di insegnanti “per far posto ai giovani”.
Per uscire dal vicolo cieco ed evitare di sottoporre un Paese allo stremo a una cura da cavallo, Matteo Renzi ha una sola strada a disposizione: portare a termine almeno una riforma strutturale entro ottobre. E per farlo, può usare la Legge di stabilità per una profonda razionalizzazione della spesa pubblica. Guai se l’unica novità di ottobre saranno le dimissioni di Carlo Cottarelli.