La politica del denaro a basso costo è la causa principale, assieme allo sfruttamento dello shale gas, della ripresa dell’economia americana. I tassi di interesse ai minimi hanno consentito, in particolare, una robusta ripresa del mercato dell’auto, che oltre Oceano si basa quasi solo su acquisto a credito, a loro volta sostenuti dall’emissione di titoli, gli Abs, da parte dei venditori. In Germania, la politica dei bassi tassi, sta avendo effetti diversi, se non opposti. Il denaro a prezzo contenuto non si è tradotto in più spese. Anzi, il calo degli interessi delle emissioni del debito pubblico si è tradotto in un peggioramento delle condizioni per chi ha fatto una polizza vita, che oggi rendono assai meno: chi vuole garantirsi un certo reddito tra vent’anni è costretto così a risparmiare di più per ottenere lo stesso risultato. E così sta accadendo l’esatto opposto di quel che ci si aspettava: i tassi al ribasso hanno compresso i consumi.



Si deve prendere atto che un Paese votato al debito, come gli Stati Uniti d’America, reagisce in un modo. La Germania, Paese che invecchia e diffida dei debiti (nella lingua di Goethe la parola schuld indica sia il debito che la colpa), in un altro. Anche in Italia la psicologia ha giocato un brutto scherzo agli economisti: i famosi 80 euro in busta paga non si sono tradotti in maggiori consumi, semmai hanno favorito nuovo risparmio. Atteggiamenti da “formiche” si stanno diffondendo anche in Francia, tradizionale patria della joie de vivre: troppe incertezze complicano le decisioni delle famiglie.



Insomma, non è facile, in una situazione così complessa guidare economie dalle dinamiche e dallo spirito così diverse. Una situazione in cui la prima banca della zona euro, la Bundesbank, continua a sostenere che la “deflazione non c’è”. Chissà che deve accadere perché herr Weidmann prenda atto che la crescita negativa dei prezzi che ormai colpisce metà dell’eurozona alla deflazione ormai assomiglia molto, comprese le reazioni dei consumatori. Il risultato è un deficit di azioni efficaci da parte della cabina di regia dell’eurozona, paralizzata dalle tensioni politiche divergenti.



È sinistro l’effetto delle parole del bollettino della Bce per cui la ripresa in Europa “resta moderata e disomogenea”. Che senso ha parlare di “ripresa” nel giorno in cui l’Eurozona conosce la crescita zero alla fine del secondo trimestre? E non meno grottesche appaiono, a questo punto, le rassicurazioni della Bce che si dice pronta, se necessario, a ricorrere a “strumenti non convenzionali”. Ma quando? Per ora dobbiamo attendere i prestiti Tltro, decisi a giugno ma che produrranno i primi effetti solo a ottobre.

Intanto c’è un fil rouge comune: le imprese non investono, le famiglie non consumano. E nel nome della stabilità dei conti pubblici si continua a predicare la necessità di interventi sul lato dell’offerta (ovvero le famose riforme) trascurando l’aspetto più urgente: riattivare la domanda che non può che essere pubblica. E così la Francia, nel giorno in cui festeggia il raggiungimento dei target previsti sul fronte del taglio dei costi, deve prender atto che il suo rapporto deficit/Pil è peggiorato di un punto, per colpa del rallentamento dell’economia. L’Italia, intanto, vede progressivamente crescere il debito nonostante il fabbisogno primario positivo.

C’è un deficit culturale, oltre che politico, da rimuovere. L’assenza di una politica dedicata alla crescita pesa ogni giorno di più. Ha senz’altro ragione Mario Draghi quando rileva che i mille ostacoli che la struttura pubblica italiana solleva a danno della voglia di intraprendere rendono difficili gli investimenti privati, in caduta libera. Le riforme sono necessarie e urgenti, ma non rimuovono la necessità di una politica della crescita. Ma non è che le cose vadano molto meglio nel Nord Europa.

Certo, i problemi nascono anche dalla crisi Ucraina. Ma questo dimostra due cose: uno sviluppo che poggia quasi solo sulla forza dell’export è per sua natura fragile. Una grande realtà economica e politica, come ha ben compreso la stessa Cina, deve contare su un forte mercato interno. Secondo, la Germania ha condizionato in maniera determinante la politica energetica dell’Unione europea, puntando sull’asse con la Russia.

Ha ragione Matteo Renzi quando sostiene che non ha senso esagerare l’importanza dei numeri. La crisi dell’Europa non è peggiore dopo la presa d’atto della stagnazione tedesca, della recessione italiana o delle difficoltà della Francia. Il vero guaio è l’assenza di risposta a questa lenta deriva cui si condanna l’Europa, nano politico che si avvia a diventare nano economico. Spaventa il fatto che la risposta comuni dei governi e della banca centrale sia “dati previsti, andiamo avanti con le nostre politiche”. Eppure qualcosa va fatto. E presto.

Archiviamo pure le richieste che non funzionano, tipo la flessibilità. Ma è necessario chiedere, in sintonia con il Fmi, alla Germania di aumentare la spesa pubblica in infrastrutture, dopo 15 anni di crescita frenata. Berlino ne ha bisogno, visto che è il fanalino di coda nella costruzione di strade e infrastrutture importanti per l’economia. L’Europa ne ha bisogno per l’effetto domino che potrebbe coinvolgere la Banca europea degli investimenti e altre strutture internazionali. Guai a rinviare ancora. O a far mancare il sostegno al Premier confidando nell’arrivo della trojka (invocato da qualche gufo) pur di tagliar le unghie a Renzi. La posta in palio è più importante delle manovrine della politica nostrana, cui dobbiamo una parte dei nostri guai.