Veniamo ora all’altro invitato di primo livello del meeting di Jackson Hole, ovvero il governatore della Bce, Mario Draghi, il quale – a dispetto dei titoloni dei giornali e delle interviste di Matteo Renzi – non ha detto proprio niente di nuovo rispetto a quanto dichiarato nella conferenza stampa seguita all’ultima riunione del board della Bce, proprio nulla, eccezion fatta per l’apertura più esplicita dell’ultima volta verso maggior flessibilità per quei paesi che daranno vita a riforme strutturali. Vediamo i passaggi principali.
Per Draghi, stimolare la crescita e creare occupazione si può, anche con il rigore dei conti pubblici. Insomma, in barba al tema del simposio del Wyoming, dedicato formalmente al mercato del lavoro, il numero uno dell’Eurotower si è dedicato poco alla politica monetaria e al suo ruolo e ha piuttosto sottolineato il sostegno che la politica fiscale e quella delle riforme può dare alla sua azione. Draghi – in ossequio al totem del “whatever it takes” per salvare l’euro – ha subito ricordato che la Bce «resta pronta a modificare ulteriormente il proprio orientamento», evidentemente in senso più espansivo: è solo la decima volta di fila che lo dice. Ha poi voluto nuovamente sottolineare come le iniziative già prese hanno cambiato la percezione dei mercati valutari, che lasciano deprezzare l’euro: «Si sono già visti movimenti dei cambi che dovrebbero sostenere sia la domanda aggregata che l’inflazione». Questi movimenti, secondo il capo della Bce, «saranno sostenuti dai percorsi divergenti attesi per la politica monetaria negli Usa e in Eurolandia. I mercati ormai scontano un rialzo dei tassi Usa più vicino di quello della Uem e questo – è la conclusione implicita del ragionamento di Draghi – dovrebbe far calare l’euro/dollaro».
Cosa che sta accadendo, ma per le ragioni che vi ho spiegato anche ieri, non per il far nulla della Bce che Draghi spaccia per interventismo. Per il numero uno della Bce, però, molto di più la politica monetaria non può fare: nell’impossibilità di portare i tassi (a breve) sotto quota zero, «c’è il rischio concreto che la politica monetaria possa perdere efficacia nel generare domanda aggregata», necessaria per ridurre la disoccupazione ciclica ma anche per sostenere le riforme strutturali, le quali senza una domanda sufficiente non riescono a diventare efficaci. Uscendo fuori, dunque, dalle questioni di politica monetaria in senso stretto, Draghi ha ricordato come si possa sostenere la domanda in una fase di rigore, che resta necessaria: dopo un primo incremento legato alla grande recessione, la disoccupazione è cresciuta in coincidenza con la crisi dei debiti sovrani.
Occorre innanzitutto usare tutta la flessibilità che le attuali regole Ue consentono, occorre poi ridurre le imposte ma in modo da non aumentare il deficit: come? «Abbassando le tasse in quelle aree in cui l’effetto espansivo di questa manovra è maggiore, riducendo contemporaneamente le spese improduttive dove l’effetto restrittivo di questi tagli è più basso». In una nota al testo scritto, c’era poi un riferimento indiretto al cuneo fiscale, da ridurre. Draghi è andato anche oltre, chiedendo un maggior coordinamento della politica fiscale al livello di Eurolandia, in modo che non sia più la mera somma dei 18 budget nazionali dei paesi aderenti all’euro ma persegua obiettivi voluti e condivisi a livello unitario.
In questo senso, Draghi ha sostenuto le proposte di Jean-Claude Juncker, il prossimo presidente della Commissione europea, che vuole disegnare un programma di investimenti pubblici e privati da 300 miliardi. Occorre, ha detto, «un ampio programma di investimenti pubblici, coerente con le proposte del prossime presidente della Commissione europea». Occorre in ogni caso fare molto e presto, sul fronte della domanda. In questa fase, ha spiegato Draghi, «il rischio di fare troppo poco, supera quello di fare troppo». È quindi più probabile ed è più grave che la disoccupazione ciclica, quella che si riduce con la ripresa, diventi strutturale e meno probabile e meno grave che si scatenino pressioni eccessive su prezzi e salari.
Insomma, la solita solfa: le misure prese a giugno daranno i loro frutti in autunno, se sarà necessario siamo pronti a intervenire anche con strumenti non convenzionali e poi l’ossessione per le riforme strutturali. Che vanno fatte, per carità, ma se devono portarci alla situazione greca o spagnola – che qualche acuto osservatore dipinge come paesi in ripresa – allora forse è meglio fermarsi a riflettere un attimo. Anche perché le famose misure annunciate a giugno e che dovrebbero portare un innalzamento dell’inflazione graduale verso il tasso del 2% fissato dalla Bce, scongiurando il rischio deflazione che invece è già presente e riattivare le dinamiche del credito verso le piccole e medie imprese, unico driver per innescare una vera ripresa e spingere la domanda e la crescita, rischiano di fare fiasco. Certo, ci sono le due aste di rifinanziamento a lungo termine per le banche a settembre e dicembre, alle quali le banche italiane si sono già prenotate in grande stile e c’è il vincolo di utilizzare quei soldi per il credito e non per l’acquisto di debito sovrano come fatto fino ad adesso, ma ci sono anche due criticità con cui fare i conti.
Primo, la Bundesbank difficilmente darà il via libera alla Bce per l’acquisto anche di Abs, ovvero sofferenze e incagli delle banche cartolarizzati e piazzati all’Eurotower per finanziarsi con denaro liquido a tasso zero, e questo obbligherà gli istituti a ulteriore deleverage in vista degli stress test e quindi a minor propensione al credito, tanto più che già oggi gli spread che molte banche italiane e spagnole impongono sui tassi per i mutui e i prestiti oltre all’Euribor sono completamente fuori mercato rispetto a quelli applicati da istituti del Nord Europa.
Ed ecco la seconda e più importante criticità: guardate il grafico a fondo pagina, ci mostra plasticamente il costo del finanziamento per le aziende in Germania, Francia, Italia e Spagna. Con una frammentazione simile sui tassi reali di interesse che le aziende pagano, la “periferia” non potrà mai ripartire, se non attraverso i trucchi contabili della Spagna che conteggia come lavoro in più gli straordinari non pagati. Nel Sud Europa c’è debole domanda per il credito, ma per il semplice fatto che i tassi di finanziamento sono ai massimi record da sempre, quindi non basta dare i soldi alle banche col vincolo di non comprare debito pubblico, occorre obbligarle ad abbassare gli spread che applicano a prestiti e mutui: ma se non le si aiuta a ripulire i bilanci da sofferenze e incagli e le si obbliga a sottostare ai criteri valutativi degli stress test e alle nuove regole di Basilea, siamo al classico caso del cane che si morde la coda.
Investire per gli imprenditori nell’area debole dell’Ue rappresenta un costo troppo alto del modello di business, soprattutto se paragoniamo i tassi attuali a quelli pre-crisi. Prendiamo la Spagna, come ci mostra il primo grafico: due sono le criticità, i costi del capitale sono oggi ai livelli del picco della crisi e cari quanto erano ai tempi precedenti all’introduzione dell’euro, ovvero al boom del credito tra fine anni Novanta e inizi del 2000. C’è poi l’Italia, come ci mostra il secondo grafico: anche qui due criticità, come per la Spagna il costo reale del finanziamento oggi è comparabile a quello del picco del crisi e i livelli attuali sono superiori a quelli di fine anni ‘90, anche se un po’ meno costosi dell’era pre-euro.
E poi il miracoloso Portogallo, la zucca marcia che la bacchetta magica della troika avrebbe trasformato in calesse: come ci mostra l’ultimo grafico, i costi del capitale oggi sono sì sotto il picco della crisi in termini reali ma molto più alti di fine anni Novanta e pari a quelli pre-euro e inoltre la volatilità del costo del capitale è alta ed è restata a tale livello dall’introduzione della moneta unica in poi.
Insomma, quello che Mario Draghi si è dimenticato di dire a Jackson Hole, fornendo magari di grazia una ricetta per intervenire (visto che formalmente sarebbe suo compito), è che oggi il contrasto maggiore e il vero vulnus da eliminare è quello che vede i costi di finanziamenti per le banche e i governi ai minimi storici e per le aziende dell’economia reale ai massimi storici. Magari lo dirà l’anno prossimo. Sempre che sia ancora al suo posto a Francoforte e non già al Quirinale.
(2- fine)