Cinquanta articoli, 3,8 miliardi per opere che dovranno partire “entro dieci mesi, pena la perdita del finanziamento”, ammonisce il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi. Ecco, in sintesi, lo Sblocca Italia che promette di rimettere in moto linea C della metro a Roma, il completamento del passante ferroviario di Torino, la metrotranvia di Firenze, la metro di Napoli e altro ancora. “Sblocchiamo anche 4,6 miliardi per cinque investimenti aeroportuali”, annuncia il premier Matteo Renzi.
Poi il premier ribadisce la sua ricetta economica: “Ho letto commenti secondo cui gli 80 euro non sono serviti a niente: voglio dire che c’è un disegno ideale, ideologico, culturale dietro gli 80 euro. C’è una parte del mondo economico che dice che dovremmo ridurre il salario dei lavoratori. Lo dicono autorevoli economisti. Ecco che nasce il modello della Spagna, poi domani è il Vietnam, poi è l’India. Ma non è riducendo il salario del lavoratore che l’Italia uscirà dalla crisi”.
Per ora, a dire il vero, non è che la ricetta renziana funzioni granché. Ammesso e non concesso che il modello spagnolo, che dà tanto fastidio al premier, si riduca nel taglio dei salari, misura che ha colpito in parte il pubblico impiego e gli insegnanti ma che poco c’entra con la riforma del mercato del lavoro, basata sulla flessibilità. Medicina amara, ma che ha consentito all’industria dell’auto spagnola di chiudere il 2013 con il quadruplo delle auto prodotte (e dell’occupazione). Non sarà la migliore ricetta, ma in qualche maniera funziona. A differenza degli 80 euro.
Peccato che il premier, al momento di varare provvedimenti importanti sulla giustizia, sulle opere pubbliche e sulla burocrazia “leggera” a vantaggio dell’economia, non abbia colto l’occasione per un colpo d’ala alla vigilia del Consiglio europeo. Eppure, come sostengono Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, sarebbe questa l’occasione giusta per dimostrare ai partner che l’Italia stavolta fa sul serio sul fronte delle riforme: non solo con lo sblocca Italia o con una parziale riforma della giustizia ma anticipando i temi della riforma più delicata, quella sul lavoro sulla cui urgenza ha insistito a Jackson Hole Mario Draghi. A cui, come sempre, ci dovremo affidare. O forse anche di più, a giudicare dal bollettino di guerra emerso dai dati macro di ieri che meritavano assai di più di una difesa d’ufficio degli 80 euro preelettorali.
A) Ad agosto l’indice dei prezzi segnala, per la prima volta, una contrazione: -0,1%. L’Italia entra così ufficialmente nel novero dei paesi in deflazione. L’ultima volta che il Paese aveva registrato un calo dei prezzi era il 1959. Ma allora la caduta dei prezzi era la punta dell’iceberg di una nascente potenza industriale, che si stava attrezzando con una forte politica di accumulazione dei capitali per soddisfare le esigenze di una domanda che di lì a poco si sarebbe manifestata nel miracolo industriale. Oggi, al contrario, è il sintomo della malattia peggiore: la caduta dei prezzi invita i consumatori a rinviare gli acquisti nella convinzione che beni e servizi domani costeranno meno. E questo a sua volta spinge le imprese a rinviare gli investimenti a danno dell’occupazione in un circolo vizioso che deprime la fiducia delle famiglie, in picchiata nonostante gli 80 euro in più nelle buste paga che sono finite in risparmi in attesa di un futuro che si teme peggiore.
B) A luglio gli occupati scendono dello 0,2% rispetto a giugno, in calo di 35 mila unità. Lo rileva l’Istat. È come se si fossero “persi” più di mille occupati al giorno. Si registra una riduzione anche su base annua, con un ribasso dello 0,3% (-71mila). Il tasso di disoccupazione sale al 12,3% contro l’11,5% della media europea. A rendere il quadro più drammatico contribuiscono altri elementi: sale anche il tasso di occupazione (55,6%), dopo due mesi in rialzo, con una riduzione di 0,1 punti percentuali sia su base congiunturale che annua. La percentuale relativa alla componente maschile cala al 64,7%, mentre il tasso di occupazione tra le donne resta al 46,5% (fermo su giugno ma in calo di 0,1 punti su base annua). In altre parole ha un lavoro meno della metà delle donne. L’unica “consolazione” riguarda i giovani: la disoccupazione scende al 42,9%, un dato comunque mostruoso ma in flessione rispetto al mese precedente. Nel Mezzogiorno non ha un’occupazione il 56 % dei giovani.
C) Il presidente della Confindustria ha definito la situazione “drammatica”. Difficile dargli torto. Il Pil del secondo trimestre è diminuito dello 0,2% sia rispetto al trimestre precedente, sia nei confronti del secondo trimestre 2013. Peggio che nel primo trimestre dell’anno, quando il Pil era diminuito su base congiunturale dello 0,1%. Il calo congiunturale del Pil, avverte l’Istat, è da imputare al calo della domanda estera netta e degli investimenti compensato lievemente dai consumi delle famiglie. Consoliamoci: il dato del Pil è l’ultimo calcolato con il vecchio metodo. Dal 15 ottobre saranno resi noti i dati con il nuovo metodo di calcolo che tiene conto dell’economia illegale. Ma anche di ricerca e sviluppo, materia in cui l’Italia non brilla, finora conteggiati come un costo e non come un investimento sul futuro (l’Istat per il terzo trimestre prevede un Pil tra il -0,2% e il +0,2%).
Anche per questo, anticipa Squinzi, non c’è da stare allegri sul Pil del 2014: a fine anno chiuderà in terreno negativo, tra lo 0,2% e lo 0,3% in meno di gennaio, costringendo così il governo a rivedere ogni previsione di entrata. È dello stesso parere Sergio De Nardis, capo economista di Nomisma: “Con questi risultati – dice – perché la variazione del Pil nella media del 2014 non sia col segno meno occorre che la dinamica economica viaggi a ritmi trimestrali almeno dello 0,3% nella seconda metà dell’anno. È ipotizzabile? I segnali per il terzo trimestre sulla fiducia di consumatori e imprese sono purtroppo in ripiegamento. Anche lo sconfinamento in territorio deflazione della dinamica dei prezzi (-0,2% ad agosto secondo l’indice armonizzato) va nel senso di deprimere, anziché sostenere, la domanda aggregata. Le tendenze del mercato del lavoro, che si muovono con ritardo rispetto all’attività economica, appaiono al più stagnanti. Sul fronte estero le crisi politiche internazionali pongono un freno all’export, ovvero all’unico motore in grado di fornire un po’ di propulsione all’economia. Tenuto conto di tutti questi elementi, è evidente che emergono rischi di un terzo anno con Pil negativo”.
La grande depressione stile Giappone, insomma, è alle porte. Oppure è già tra noi. Per capire quanto sia difficile guarire basti uno sguardo a quel che capita nel Sol Levante, alle prese con la terapia dell’Abenomics: la ripresa alimentata da un enorme aumento della liquidità e da un piano di spese imponente, si è bloccata dopo l’aumento dell’Iva, programmato per spostare il finanziamento del debito e della spesa dalle imprese alle famiglie, che nel frattempo avrebbero comunque potuto contare su un aumento degli stipendi e dell’occupazione femminile. Al contrario, i maggiori profitti delle grandi aziende non hanno generato più occupazioni in patria né aumenti di stipendio. I consumi, nel frattempo, sono precipitati al pari del Pil.
Rispetto all’Europa, però, il Giappone ha almeno coscienza della gravità della recessione. Nel Vecchio Continente, i “falchi” di Berlino, che comunque dettano le scelte politiche di fondo del Paese guida dell’Unione, si ostinano sostenere che “la deflazione non c’è” e che l’attuale recessione è un fenomeno transitorio, da imputare alla crisi ucraina.
Di questo passo non sarà facile mantenere la coesione dell’area euro, difesa solo dai tassi bassi. Finché dura.