Facile dire come fa Beppe Grillo che il vero gufo è Matteo Renzi. Troppo facile. Altrettanto semplice ricordare che i gufi non sono uccelli del malaugurio, ma vecchi saggi. La filosofia, diceva Hegel, arriva sempre tardi come la nottola di Minerva che s’alza sul far del crepuscolo, dunque non sa prevedere, solo analizzare. Ma prima di agire bisogna dare ascolto a chi ha fatto della conoscenza la propria missione. Si spera che il dato Istat pubblicato ieri serva a Renzi da richiamo alla realtà. Detto questo, buttare la colpa solo sul governo, come è stato fatto in tutti questi anni, diventa un alibi troppo comodo per tutti coloro i quali con il loro comportamento hanno contribuito a portare il Paese in questo stato semicomatoso. Quale immagine è più rivelatrice delle valigie abbandonate sulla pista di Fiumicino?
Il prodotto lordo nel secondo trimestre è in discesa (-0,2%, -0,3% in ragione d’anno) e il suo livello è il peggiore da quattordici anni. Il valore aggiunto si è ridotto in tutti i comparti: agricoltura, industria e servizi. L’Italia è ancora in recessione, in crescita negativa (anno su anno) dal terzo trimestre del 2011, cioè dal collasso di Berlusconi, mentre è in discesa dalla primavera dello stesso anno. Sono passati Monti, Letta e Renzi, l’economia è affondata. La disoccupazione è peggiorata del 4%, il debito di sei punti rispetto al prodotto lordo.
Il governo attuale ci ha messo del suo e bisogna ammetterlo. Gli 80 euro potevano essere una buona idea, ma si sono rivelati un obolo elettorale, hanno avuto effetto politico, non sull’economia. Sarebbe stato meglio se invece dell’Irpef il governo avesse ridotto l’Irap come sostiene la Confindustria? No. L’esperienza di Prodi del 2006 con il suo taglio al cuneo fiscale, costoso per il bilancio pubblico e inutile per la produzione e l’occupazione, sta lì a dimostrarlo. Renzi con una mano ha dato e con due ha preso (imposte locali, patrimonialine, balzelli vari). La pressione fiscale sui redditi è rimasta invariata e in più si è aggiunta l’incertezza che grava sulla Tasi. Dunque, un chiaro errore di politica fiscale e chi lo ha addita non è un menagramo, ma fa opera di verità.
Il secondo errore è stato annacquare e rinviare la riforma del mercato del lavoro. Rendere più facile assumere e licenziare era uno dei punti fondamentali della famigerata lettera della Bce dell’agosto 2011. Non è stato fatto e non avverrà nemmeno se il ministro Poletti portasse a casa intonsa la sua riforma. Il governo ha cercato di prendere tempo, sperando di recuperare il consenso della Cgil: ebbene Susanna Camusso gli ha dato il ben servito facendo addirittura ricorso all’Unione europea per violazione dei diritti dei lavoratori.
Il terzo sbaglio è inseguire la chimera della flessibilità. La lettera della Bce chiedeva al governo Berlusconi di anticipare il pareggio del bilancio. Ebbene non ci sarà neppure nel 2016. Non che sia un tabù inattaccabile (del resto nemmeno la Francia e la Spagna lo raggiungeranno prima di due anni), ma di fronte a questa situazione è davvero facile replicare, come fanno i tedeschi, che l’Italia si è rimangiata gli impegni assunti con l’Ue e con la Bce, dunque ha già goduto della flessibilità che oggi invoca.
Il quarto errore (e lo si sta commettendo proprio in questi giorni) è puntare sugli investimenti pubblici e sulle mitiche grandi opere. Non perché non ce ne sia bisogno, ma perché il loro impatto sulla congiuntura sarà necessariamente spostato nel tempo, mentre occorre muovere la produzione qui e ora. Ieri l’Istat ha diffuso anche i dati sull’industria che mostrano una continua riduzione nel primo semestre con un rimbalzo a giugno (+0,4%), se corretto con i giorni lavorativi effettivi. Per le costruzioni siamo ancora maggio, ma il calo è continuo, – 6,5% nei primi cinque mesi, -4,7% a maggio corretto per il calendario. Tutto ciò si aggiunge al tonfo di tutti gli anni precedenti. L’edilizia è ancor oggi il volano della ripresa, lo dimostrano gli Stati Uniti dove proprio questo comparto insieme ad auto ed energia ha guidato la crescita. In Italia attività estrattiva ed energetica sono negative, mentre i mezzi di trasporto registrano un miglioramento che però non inverte ancora il trend degli anni scorsi.
In conclusione, per far ripartire l’economia occorre una spinta di breve termine, dal lato della domanda privata, di consumi e di investimenti. Lo dicono i “gufi professori” come li chiama Renzi, ma il capo del governo deve ammettere che hanno ragione. Lo strumento principale resta quello fiscale, quindi bisogna ridurre in modo significativo il carico complessivo delle imposte sulle famiglie e sulle imprese. Per far questo, vanno recuperati spazi consistenti dal lato della spesa. Il governo invece ha creato l’illusione di poter scaricare tutto sulla spending review il cui compito è razionalizzare la spesa. Ma la decisione sulla quantità di risorse pubbliche e su come ripartirle spetta al governo, è il cardine della politica economica. Adesso, insieme al commissario (non più super) viene liquidata anche la spending review, non per sostituire alle forbici l’accetta bensì, al contrario, nella speranza di stemperare le reazioni corporative che hanno impedito in questi anni di reimpostare in senso produttivo e non assistenziale il bilancio pubblico.
Finora abbiamo parlato solo del governo, dopo aver detto che non è il solo colpevole. In effetti, le corporazioni portano sulle loro spalle delle colpe enormi, i sindacati del personale pubblico, come quelli privati, la Cgil che si mette di traverso sul mercato del lavoro e gli scaricatori che lottano non contro gli sceicchi di Etihad, ma contro i passeggeri dell’Alitalia, inermi e incolpevoli. Ecco, quei bagagli sulla pista di Fiumicino possono diventare la metafora dell’Italia attuale: sono pieni di belle cose e di speranze che sempre accompagnano il viaggio, ancor più quando è di piacere. Ebbene, giacciono abbandonanti, come fossero rifiuti, gettati al vento da chi non vuol cambiare nell’illusione di difendere un orticello che la talpa della crisi ha già devastato.