Come immagino vi siate accorti in questi anni, tendo a non dare mai giudizi personali o punti di vista aprioristici ma a cercare di capire la realtà attraverso punti di vista che siano alternativi a quelli dei media cosiddetti mainstream. Oggi, però, spero mi perdonerete se prenderò posizione, ponendomi e ponendovi una domanda retorica: davvero l’Italia può ancora permettersi di stare nell’euro?
Partiamo da un dato in prospettiva: di tutte le nazioni che fanno parte del G7, solo Italia e Giappone non hanno superato il dato di Pil raggiunto prima dello scoppio della crisi. Il Canada, ad esempio, è sopra del 9% rispetto al livello di Pil del 2008, l’Italia è ancora sotto del 9% e, oltretutto, la nostra economia si sta ancora contraendo. Per carità, la colpa non è certamente tutta dell’euro, visto che dal 1999 a oggi la media di crescita del Pil italiano è stata solo dello 0,3%, pressoché zero. C’è poi l’indiscutibile necessità di riforme, prima fra tutte quella del mercato del lavoro, visto che l’economia italiana ha patito più delle altre dell’eurozona la crescita dei cosiddetti mercati emergenti: il perché è presto detto, visto che se in Germania si producono manufatti di alta specializzazione, beni durevoli e macchinari, in Italia si è proseguito a produrre massimamente beni cosiddetti low-to-mid-spec, gli stessi che producono Cina e altri mercati dell’Est a costi enormemente più bassi.
Di converso, l’euro fin dalla sua introduzione non ha certo facilitato il compito ai produttori italiani, visto che i nostri costi son continuati a salire più di quelli di Germania e di altri paesi cosiddetti “core”: non potendo più svalutare come si faceva un tempo con la lira, il gap di produttività e competitività, nonché sui costi, è diventato incolmabile. Lo dicono ancora una volta queste cifre, rese note soltanto martedì da Istat e Isfol: oltre 500mila occupati in meno dal 2008 al 2012, soprattutto artigiani e operai specializzati. Ma non solo: innovazione e aggiornamento scarsi, insicurezza massima tra gli addetti ai call center.
Il primo dato che balza agli occhi è l’erosione dell’occupazione: nei quattro anni della crisi, artigiani e operai hanno perso 555mila occupati. Non sono gli unici, ovviamente: dirigenti e imprenditori sono calati di 449mila (-42,6%), di cui quasi 100mila soltanto nell’ultimo anno. Un annus horribilis per le imprese, il 2012, se – come denuncia il rapporto – gli imprenditori e direttori delle grandi industrie sono diminuiti di 54mila unità, quelli delle piccole di 40mila: a fare da contraltare è il forte aumento nelle professioni non qualificate (cresciute di 358mila unità) e in quelle dedite a commercio e servizi (+372mila).
L’occupazione femminile ha registrato un calo evidente: -12,5%, in particolare tra le professioni tecniche (-231mila occupate, una diminuzione doppia di quella degli uomini), ma le donne aumentano più dei maschi soprattutto nelle professioni a bassa qualificazione (+24,9%, il doppio degli uomini) e nei servizi (+14,1%, quattro volte più dei maschi). Ma se progettare e immettere sul mercato nuovi prodotti e sviluppare nuovi metodi e sistemi di produzione sono la cartina di tornasole per la competitività di un Paese, l’Italia della crisi sembra al palo. Sono appena il 26,1% del totale le professioni in cui la maggioranza degli intervistati (il 60%) dice di aver riscontrato un cambiamento nella modalità di svolgimento del lavoro.
Insomma, bassa qualificazione, gap di produttività e competitività, assenza di riforme. Ma c’è dell’altro e riguarda la spina dorsale dell’economia italiana, le Piccole e medie imprese. A sei anni dallo scoppio della crisi, è ancora buio pesto: nuova impennata dei fallimenti che tra aprile e giugno hanno visto più di 4mila imprese aprire una procedura fallimentare, registrando un incremento del 14,3% rispetto allo stesso periodo del 2013. La crescita a doppia cifra porta i default oltre quota 8mila se si considera l’intero semestre, +10,5% rispetto al livello già elevato dell’anno precedente e record assoluto dall’inizio della serie storica dal 2001.
«Stiamo vivendo una fase molto delicata per il sistema delle Pmi italiane – commenta Gianandrea De Bernardis, amministratore delegato di Cerved che ha curato lo studio -: la nuova recessione sta spingendo fuori dal mercato anche imprese che avevano superato con successo la prima fase della crisi e che stanno pagando il conto al credit crunch e di una domanda da troppo tempo stagnante». L’incremento più sostenuto si osserva tra le società di capitale, la forma giuridica in cui si concentrano i tre quarti dei casi, che superano nel primo semestre quota 6mila. Minore invece l’incremento del fenomeno tra le società di persone (+5,9%) e tra le altre forme (+1,8%).
L’analisi condotta da Cerved mostra come i fallimenti riguardino indistintamente tutta la Penisola: «I tassi di crescita – prosegue De Bernardis – sono ovunque a doppia cifra a eccezione del Nord Est, in cui si registra un incremento del 5,5%, il livello più basso di tutto il territorio. In crescita del 14% rispetto al primo semestre 2013 i fallimenti nel Mezzogiorno e nelle Isole, del 10,7% nel Nord Ovest e del 10,4% nel Centro». A livello settoriale, la maglia nera spetta ai servizi che contano un aumento del 15,7%, in netta accelerazione rispetto al primo semestre del 2013. Continuano, anche se con dei ritmi più lenti, le procedure nelle costruzioni e nella manifattura: i fallimenti di imprese edili crescono nei primi sei mesi del 2014 dell’8,2% (+12,8% nel 2013), mentre per le imprese manifatturiere l’aumento è del 4,5% (+10,5% nel primo semestre dello scorso anno).
Ora, prima di proseguire, solo una piccola annotazione: se l’Istat parla del settore dei servizi come l’unico che vede aumentare l’occupazione e il Cerved ce lo dipinge come maglia nera dei fallimenti, chi ha ragione? Poco male, siamo in Italia, Paese che qualcuno definiva in ripresa – anche su queste pagine – nonostante i consumi energetici per l’industria si schiantassero mese dopo mese, forse avevamo scoperto una fonte alternativa…
Quindi, che fare? Con un tasso di disoccupazione al 13% e l’inflazione in negativo, ovvero in piena deflazione, resta l’enorme problema italiano, lo stock di debito. L’Italia ha infatti un deficit del 3% circa, ora sceso al 2,7% grazie alla rivisitazione dei criteri di calcolo europei del Pil, quindi gestibile, ma con una ratio debito/Pil cresciuta proprio nel periodo dell’austerity e ora a quota 130% l’attuale fase di convergenza economica rischia di costarci carissima, perché con l’economia stagnante e i prezzi a picco, anche il Pil nominale cala, nonostante il ricalcolo e l’assorbimento come voci di droga, prostituzione e gioco d’azzardo. E, capite da soli, che se non sale il Pil, la ratio di debito rischia di andare fuori controllo anche con il budget di fatto in posizione di quasi bilancio.
Insomma, siamo molto vicini a quella che gli economisti chiamano “trappola del debito”, ovvero la crescita esponenziale di quella ratio, una condizione dalla quale si esce solo in due modi, o attraverso l’inflazione o attraverso il default. Ma con una moneta non sovrana e con la Bce che fa poco o niente, al netto delle chiacchiere, per stimolare l’inflazione, o qualcosa cambia e in fretta – o può accadere solo attraverso l’azione dell’Eurotower – oppure prepariamoci alla madre di tutti i default sovrani.
Certo, ci sono due dati macro che fanno propendere per un’impossibilità di questo epilogo: primo, il tasso di risparmio, ovvero la ricchezza degli italiani che potrebbe, attraverso un prelievo forzoso, tamponare la situazione. Secondo, la posizione di gestione del nostro debito sovrano, al 70% in mano italiana, e quindi in una condizione molto diversa da quanto accaduto a Portogallo e Grecia: insomma, abbiamo meno creditori pronti a morderci le caviglie e obbligarci a una ristrutturazione e, nei fatti, porremmo meno rischio sistemico per la nostra esposizione al debito internazionale ridotta.
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