Difficile elencare tutti i marchi più noti che ne fanno uso. Vi basti sapere che molto probabilmente nell’auto che guidate, nel mobile, nell’interruttore o nella presa elettrica che avete in casa, come pure negli occhiali o negli orologi che indossate, c’è il lavoro di uno dei “gioiellini” della Cosberg Spa, società di Terno d’Isola (BG), che progetta, sviluppa e costruisce macchine avanzate e moduli per l’automazione dei processi di montaggio. Certo, non siamo alle celebri multinazionali tascabili descritte da Fulvio Coltorti, ma questa azienda fondata nel 1982 da Gianluigi, Antonio ed Ermanno Viscardi ha, oltre a tre unità produttive in Italia, uno stabilimento in Francia e un ufficio tecnico in Brasile, ha una novantina di dipendenti con un fatturato di gruppo di 22 milioni di euro l’anno, vendendo i suoi prodotti principalmente all’estero (Usa, Sud America, Germania, Francia, ecc.), senza dimenticare gli oltre 15 brevetti depositati.
Non ha imbarazzo Gianluigi Viscardi, Presidente di Cosberg, a ricordare i primi tempi in un seminterrato e l’inizio della sua attività di imprenditore: «Provenendo da una famiglia contadina, tutto è nato dalla passione, dalla voglia, dalla fame di imparare». E anche da scelte difficili, come quella di lasciare il posto di operaio saldatore per fare l’archivista e scoprirsi poi abile disegnatore: un talento che aveva però bisogno di formazione, «così a 24 anni mi sono iscritto alle scuole serali». Poi la scelta di provare l’avventura di entrare come socio in un’azienda, scoprendo solo dopo che aveva grandi problemi finanziari. «Nel 1982 i miei fratelli e io ci siamo trovati con debiti e senza lavoro. Abbiamo quindi deciso di fare qualcosa. All’inizio disegnavo in veranda, quindi in cantina; poi abbiamo preso una baracca edile come ufficio, quindi un seminterrato. Ogni tanto penso a chi allora mi diede ordini importanti e in un momento come questo mi chiedo perché non abbiamo più tra di noi imprenditori la fiducia che c’era allora».
E in effetti in un momento di crisi come quello attuale può essere utile non solo vedere come nascevano le imprese un tempo, ma anche come chi è stato capace di guidarne una dal nulla a una posizione di leadership sul mercato ha guardato e guarda alle difficoltà: «Sulla mia strada ho trovato parecchie persone importanti che mi hanno aiutato, e altre che invece mi hanno messo i bastoni tra le ruote. Nel mio percorso forse ringrazio di più quest’ultime, perché mi hanno obbligato a trovare altre strade per raggiungere i miei obiettivi: senza di loro probabilmente non sarei arrivato dove sono adesso». E poi l’importanza data a passi che potevano sembrare azzardati e folli: «Il marchio è una cosa importantissima e ho lottato tanto per difenderlo. L’ho registrato in tutti i paesi, già nel 1984, quando ancora eravamo in cantina. Abbiamo poi cominciato a brevettare e ad acquistare brevetti: il primo nel 1986».
Dev’essere affascinante, ma certamente non facile, lavorare a fianco di una personalità così vulcanica e “visionaria” come quella di Viscardi, che quando ancora l’azienda aveva una decina di addetti e pochissimi anni di vita ha deciso di farne una Spa. Lo sa bene suo figlio Michele, classe 1980, con un piede in azienda già dai tempi delle scuole e oggi approdato nel Consiglio di amministrazione. È il più grande di cinque “giovani Viscardi” che attualmente sono impegnati in Cosberg, le fresche leve che forse un domani avranno le redini dell’azienda. Per loro nessun favoritismo, «anzi, devono sempre dimostrare di più degli altri dipendenti». La sua gavetta è stata un brevetto che il padre aveva deciso di acquistare da una ditta giapponese nel 1996.
Per sette anni Cosberg non sfrutta questa tecnologia e così nel 2003 a Michele arriva la “proposta indecente”: «Stavo studiando Ingegneria e mio padre mi ha chiesto di prendere qualche mese di “aspettativa” per sviluppare questo know-how». Le cose funzionano e per Michele arriva il momento di una scelta delicata: lasciare gli studi per non diventare uno specialista. «In quei pochi mesi ho conosciuto meglio l’azienda e ho capito che non sarebbe stato un bene se mi fossi focalizzato solo su un aspetto della realtà». La scelta viene condivisa con il padre e per lui ha inizio un periodo particolare: «Lavorare su quella nuova tecnologia era come stare in una sorta di incubatore di ricerca, dove potevo sperimentare e fare un po’ quello che volevo. Non avevo però un vero riscontro su cosa volesse dire affrontare il mercato, avere scadenze strette o esigenze del cliente da rispettare».
Finché nel 2004 arriva un ordine importante, grazie alla nuova tecnologia (auto distributori elettrorisonanti piezo): «Era un nuovo passo anche per l’azienda, perché si andava contro tante abitudini che avevamo all’interno. Sono passato dall’incubatore al “campo di battaglia”, facendo fronte alle richieste del cliente, con problematiche vere e soluzioni da trovare senza poter fare affidamento su esperienze del passato, visto che era tutto nuovo». E senza un “aiuto” diretto del padre: «Forse è stata una sorta di prova nei miei confronti, ma lui mi faceva parecchio sbagliare, sbattere la testa contro il muro, senza darmi subito la soluzione, così che potessi essere io a cercarla». Su questo punto, Viscardi senior non ha dubbi: «All’inizio non lo facevo sbagliare, perché era difficile non intervenire. Poi ho capito che gli sbagli servono. Parlando da padre, se lo avessi mandato nelle università migliori non ci sarebbe stato lo stesso risultato, per la sua formazione, dato da quegli sbagli».
Michele, in ogni caso, non dimentica la fatica fatta all’inizio: «È stata davvero dura per almeno un anno». Ma poi il risultato è stato eccezionale: «Il cliente è stato talmente contento che ci ha trasformato da fornitori a suo centro di ricerca. È stata una svolta, anche per la nostra mentalità costruttiva, perché i pezzi dovevano essere perfetti».
Insomma, la Cosberg sembra una solida realtà, ma il suo Presidente sa che è bene non sedersi sugli allori: «Una volta uno poteva dire di essere “arrivato”, oggi invece bisogna “starci”. Lo dimostra il fatto che ci sono aziende storiche che chiudono da un giorno con l’altro». Specialmente quando c’è di mezzo il passaggio intergenerazionale: «Ho visto degli “imperi” distruggersi. Credo che sia solo un problema di non essere stati chiari prima, di non aver impostato le cose con la massima trasparenza tra padri e figli. Il punto centrale è capire dove sta il valore di un’azienda, che deve essere concepita non solo come produttrice di profitto, peraltro mezzo essenziale per il suo sviluppo, ma principalmente come bene sociale».
E in questo senso Viscardi ha avuto una sorta di illuminazione nel 2001, dopo che l’amarezza per un’accusa (infondata) di comportamento antisindacale lo aveva spinto a mettere in vendita l’azienda. I fondi di private equity le avevano assegnato un valore nettamente superiore a quello da lui immaginato. «Mi avevano offerto l’86% di un gruppo (perché si doveva fare una fusione con un’altra azienda) più dei soldi. Io però volevo uscire e lasciare tutto. A quel punto, però, il valore si sarebbe drasticamente ridotto. “Perché l’azienda è lei”, mi hanno spiegato. Questo mi ha fatto scattare una molla e ho pensato “Se esco di qui e ho un incidente cosa succede all’azienda?”».
Una domanda che si lega a uno dei grandi problemi di una piccola impresa: «In certi casi, se va via un operaio specializzato bravo, è finita. Il punto è che un imprenditore non ha in mano il know-how della sua azienda: è tutto nelle persone che ci lavorano». Considerato che negli anni la Cosberg è diventata un terreno ideale per i “cacciatori di teste”, visto che i concorrenti desideravano avere i suoi tecnici, Viscardi ha deciso di mettere sempre più valore nell’azienda, «attraverso tre pilastri: preparare la società a essere venduta per non venderla mai; porsi la domanda “cambiando tutto il personale, quanto know-how rimane in azienda?”; lavorare in modo oggettivo e non soggettivo, cioè qualsiasi cosa io faccio, devo farla in modo che qualcun altro possa andare avanti a farla».
Una rivoluzione ancora in atto sotto lo slogan di opening innovation. «Non dobbiamo avere il problema che qualcuno ci copi, perché noi dobbiamo essere già più avanti. Abbiamo cominciato a registrare tutto, anche i miei ragionamenti, il perché prendo certe decisioni: deve esserci sempre qualcosa di oggettivo dietro. Abbiamo strutturato internamente un rating dei clienti e uno dei fornitori. Con un software, ogni 3-4 ore il programmatore deve smettere quello che sta facendo e un altro va avanti su quel lavoro. Stessa cosa accade anche a chi progetta: non si lavora mai sullo stesso progetto. Il ragionamento per i dipendenti deve essere: “Immaginate di vincere al Superenalotto e domattina di non venire più a lavorare, ma senza creare problemi ai vostri altri colleghi”. Non è stato facile, ma ora un giovane che inserisco in azienda, nel giro di un paio di mesi, è al pari con gli altri. Il sistema, dopo 5-6 anni, non è ancora perfetto, è in evoluzione e in miglioramento, ma non possiamo farne a meno». Anche perché, senza bisogno di esplicitarlo, rende meno complicato un eventuale passaggio di testimone ai vertici: «Se il valore è nell’azienda stessa, non è del titolare o del figlio, quindi qualsiasi cosa succede a loro l’azienda va avanti».
Ma il giovane Viscardi si sente già pronto per prendere il comando? «Penso che non ci sarà una circostanza vera e propria in cui dirò che è giunto quel momento. C’è sempre da imparare, da migliorarsi, da mettersi in gioco ogni giorno. Sarà il campo stesso a dire se e quando sarò in grado di fare questo passo o se dovrò avere un altro ruolo». E il padre ci tiene poi a sottolineare che «l’azienda non è mia. Io sono solo pagato per farla andare avanti. E alla scadenza di ogni mio mandato rimetto tutto in mano ai soci. E non è un mestiere facile, perché un imprenditore ha anche una responsabilità sociale: se sbaglia, oltre a rimetterci di suo, crea anche dei problemi a delle famiglie, al territorio». Questo l’ha chiaro anche Michele, che alla spinosa domanda sul commentare la scelta di chi vende l’azienda che ha avuto in eredità risponde: «Io difficilmente lo farei, se non spinto dal fatto che sia necessario fare quel passo piuttosto che rovinare l’azienda o delle famiglie. Oppure un’impresa può essere anche data in mano a qualcun altro per farla crescere, ingrandire e poi riprendersela in futuro».
E nelle imprese famigliari far entrare qualcuno di esterno non è facile. In Cosberg stanno iniziando a farlo, anche per acquisire maggiori competenze in campo finanziario. Del resto bisogna far fronte a una competizione sempre più agguerrita e globale, nella quale «nessun altro ha le tecnologie di produzione che ha l’Italia. Il problema è che nel Paese sembra mancare una visione ampia. Parlo per il nostro settore: continuiamo a farci la guerra per le piccole cose (come non comprare dal concorrente), quando nel mondo sono più grandi di noi e si alleano». Questo è uno dei problemi dell’imprenditorialità italiana, insieme certamente al fisco e alla burocrazia («se fosse stata così forte ai miei tempi – dice Viscardi – probabilmente non sarei stato in grado di mettere in piedi questa azienda»). Ma se c’è qualcuno che ogni giorno è impegnato sul “campo di battaglia”, come qui a Terno d’Isola, è lecito continuare a sperare che nel nostro Paese si possano ancora creare valore aggiunto, lavoro e quei “gioielli” che tutto il mondo ci invidia.
(Lorenzo Torrisi)