Il Quantitative easing batte alle porte. Tra una settimana Mario Draghi, sostenuto dalla maggioranza del direttorio, darà il via libera all’acquisto di titoli di Stato sul mercato secondario, nonostante la scontata opposizione dei rappresentanti della Bundesbank e dei suoi alleati. Si vedrà tra una settimana quali saranno le conseguenze dell’ostilità di Weidmann, che continua a chiedere il coinvolgimento delle banche nazionali nelle garanzie a fronte dei titoli a rating più basso. Per ora, prendiamo atto che la Bce sembra finalmente in grado di compiere una svolta storica, adottando in piena autonomia una decisione che non ha bisogno del permesso della politica. 



Corre una profonda differenza tra il piano Omt, “assolto” in settimana dall’Avvocato generale della Corte di giustizia europea, rispetto al Quantitative easing. Nel caso degli Omt, mai utilizzati, la Bce si mette in moto su richiesta di uno Stato in difficoltà. Ma è necessario il consenso degli altri Stati membri. Si tratta di un intervento d’emergenza, per cui non è previsto un tetto prefissato, che richiede l’avallo esplicito degli altri partecipanti dell’eurozona. Oltre a regole chiare, trasparenti e molto stringenti per evitare abusi (come ha sollecitato lo stesso Avvocato della corte del Lussemburgo). Per dirla in parole povere, l’Omt non può essere usato contro la Merkel perché nasce per sussidiare l’azione della Merkel con lo strumento della moneta. 



Il Qe è tutt’altra faccenda. Si tratta di un’arma di politica monetaria di esclusiva competenza della banca centrale, che per statuto è indipendente. Mario Draghi, insomma, non deve chiedere permesso per attivare il bazooka. E non sarà un terremoto elettorale in Grecia, ha sottolineato il membro del direttorio Benoit Coeré, a condizionare l’azione della banca centrale. Certo, la Bce non vive su una torre d’avorio. Ma, come ha più volte sottolineato Draghi, la banca centrale ha una missione esplicita: mantenere il passo di inflazione poco sotto il 2%. E in questo senso l’Eurotower è da molti mesi gravemente inadempiente, con un costo pesante per l’occupazione: di qui la necessità di muoversi con decisione e meno vincoli possibile. 



Basterà? È lecito essere pessimisti. Il Qe è senz’altro necessario, quasi certamente non sufficiente. Per vari motivi. Il meccanismo è noto: il Qe agisce sui rendimenti dei titoli di Stato e si riflette poi sui tassi di interesse a lungo termine. Questo dovrebbe stimolare gli investimenti e, tramite un aumento del prezzo degli asset, la domanda aggregata. Ma in Europa la ricetta rischia di essere meno efficace che in Usa o Regno Unito: il mercato finanziario europeo è imperniato sul ruolo determinante delle banche, per cui è assai meno rilevante il ruolo della Borsa o del mercato obbligazionario, più sensibili e ricettivi alle modifiche dei tassi. 

Difficile, poi, che il Quantitative easing si trasmetta con rapidità nel mercato immobiliare, com’è accaduto nei paesi anglosassoni, dove per le famiglie è più immediato l’accesso al credito e al mutuo immobiliare. Soprattutto, però, il Qe cade in una situazione di tassi già ai minimi storici, in cui latita la domanda di mercato da parte delle imprese. Per risvegliare la domanda, insomma, ci vorrà una scossa molto forte, difficile in presenza dell’ostilità manifesta del principale azionista della Bce, cioè la Bundesbank.

A ridurre l’efficacia del Qe, infine, contribuisce il malessere del sistema bancario, così come emerge dai rilievi della Vigilanza bancaria europea. Il Qe americano è stato preceduto da una profonda pulizia nei conti delle banche Usa, seguita da interventi ancor più profondi sulla governance e sui manager delle banche accompagnati da sanzioni severe ai banchieri e agli istituti. Il bazooka di Ben Bernanke, insomma, è entrato in azione dopo una drastica cura dimagrante su bilanci più snelli, sgravati da partite incagliate e crediti inesigibili.

In Italia la situazione è ben diversa: sul sistema gravano 184 miliardi di sofferenze, a fronte delle quali c’è un ipotetico valore di realizzo di 88 miliardi, da alcuni ritenuto troppo ottimistico, vista la situazione del mercato immobiliare. La conseguenza è che, almeno finora, ogni intervento della banca centrale, vedi Tltro, si è fermato in banca senza procedere oltre verso le imprese. Quei quattrini, insomma, servono per sostenere una situazione che resta, nella generalità del sistema, precaria. A partire dal mercato immobiliare. Le banche, quando il mercato tirava, hanno finanziato in misura massiccia la costruzione di nuove case. Con il sopraggiungere della crisi e il crollo della domanda, una parte della imprese non è stata in grado di far fronte al servizio del debito. 

Nei casi di rischio elevato per i loro capitali, le banche finanziatrici hanno pignorato gli immobili. Non li immettono sul mercato, attraverso le procedure di esecuzione immobiliare, per evitare il duplice effetto di esporle a svalutazione e di rendere ancora più difficile smaltire, malgrado la riduzione dei prezzi delle aste, la montagna di case pignorate alle famiglie.  Le imprese, indebitate a loro volta, resistono e mantengono prezzi di vendita a livelli non accessibili per le famiglie: la loro paura è che, se li abbassano, le banche possano chiedere la restituzione dei prestiti, temendo l’innesto di una spirale di progressiva svalutazione dei crediti concessi (che potrebbero non essere più in bonis). Il che potrebbe significare il pignoramento degli immobili o, peggio, l’avvio di una procedura concorsuale. Questa situazione ingessata rischia di render meno efficace il Qe, che ha avuto un ruolo essenziale nel far ripartire il mercato della casa in Usa e a Londra. 

Occorre, perciò, che l’Italia affronti il nodo dell’indebitamento bancario. La ripresa dell’economia spagnola deriva in buona parte dal coraggio con cui Madrid ha varato la bad bank liberando il sistema dalla zavorra delle case invendute. Certo, il costo è stato pesante. Ma l’inazione italiana rischia di avere un prezzo, diluito nel tempo, ancor più alto. La ricetta maestra ha previsto, dagli Usa alla Gran Bretagna o alla Spagna, l’ingresso del capitale pubblico nelle banche, il cambio di management e la successiva cessione dell’istituto risanato (stessa ricetta in Portogallo per Banco de Espirito Santo). Più le inevitabili sanzioni per chi ha sbagliato. In Italia, finora, l’unico intervento riguarda i prestiti, con interessi esosi, a Mps. Oggi, quei 100 miliardi almeno di minusvalenze del sistema sono un macigno che pesa sul Qe o, più in generale, possibilità di ripresa del sistema. 

Come risolverlo? Le ricette non sono molte. In parte pagheranno azionisti (e obbligazionisti). In parte il mercato, nel caso la congiuntura favorisca operazioni sul capitale o altri finanziamenti. In parte, ahimè, toccherà allo Stato, ovvero ai contribuenti. Una pillola amara, soprattutto se non preceduta dalla sacrosanta operazione di pulizia sia in banca che presso i clienti eccellenti. 

Difficile evitare questo passaggio, affrontato dalla Spagna di Mariano Rajoy, governo di destra che ha avuto il coraggio di prendere una misura di destra nel nome del capitalismo. Meglio dei “prestiti” a Mps di Giulio Tremonti o di Mario Monti. O della benevola disattenzione della sinistra verso i santuari del credito, per tradizione più vicini al centrosinistra.