Se un fondo sovrano del Golfo è disposto a investire più di mezzo miliardo sullo scorporo della rete Telecom e fra gli esiti previsti vi è anche la chiusura del “digital divide” per imprese e famiglie italiane, fa bene il governo a incentivarlo con una “tax rule”. Idem se un’istituzione del capitalismo misto cinese vuole entrare nell’Ilva, cioè s’impegna a dare un futuro a un’intera città come Taranto. Bene anche se qualcuno vuole puntare soldi e strategie finalmente adeguati sull’aeroporto di Malpensa e così via lungo un elenco interminabile. Il premier Matteo Renzi, che non può investire neppure un euro di quelli che il bilancio pubblico non ha e probabilmente non avrà mai più, non ha torto a mettere sul piatto garanzie fiscali: le uniche che può del resto offrire uno Stato (a quelle sindacali ci dovranno pensare le organizzazioni dei lavoratori, se ne avranno la volontà e il coraggio). Nessun ma, quindi. Qualche pensiero in margine però sì, scorrendo l’intera bozza ufficiosa dell'”investment compact” oggi in Consiglio dei ministri. 



Il primo è che l’Italia resta un Paese tutt’altro che povero di capitali, anzi. Favorire i grandi investitori esteri va bene: l’effetto-scossa si annuncia importante. Ma l’investment compact arriva all’indomani di una Legge di stabilità che ha nuovamente colpito il risparmio domestico. È vero che l’aumento della tassazione sulle rendite finanziarie è formalmente un allineamento agli standard europei, ma è vero anche che l’austerity fiscale seguita alla crisi del 2011 ha trivellato in profondità i grandi giacimenti storici di risparmio diffuso nel Paese. Ha nuovamente frenato lo sviluppo faticoso dei fondi pensione. Ha inasprito i prelievi sugli utili delle fondazioni bancarie: gestrici di “risparmi civici” e già intervenute – senza incentivi – nella capitalizzazione della Cassa depositi e prestiti. A proposito: perché non puntare di più – per convogliare i nuovi investimenti esteri – su soggetti già esistenti come i fondi strategici creati attorno alla Cdp? O fra gli obiettivi dell’investment compact c’è (di nuovo) lo sradicamento delle infrastrutture finanziarie nazionali? L’emergenza giustifica ormai tutto, ma perché stendere tappeti rossi agli investitori esteri e ignorare le risorse investibili dall’interno, anche in grandi progetti, con strumenti opportuni?    



Essendo noto che fra i consiglieri di Renzi c’è il gestore italo-londinese Davide Serra,  non è solo teorico il sospetto che l’investment compact incorpori ancora qualche premessa ideologica e non di politica industriale: e cioè l’idea – resistente anche nel 2015 – che la globalizzazione finanziaria rimanga una matrice unica e dominante per l’economia. Già vent’anni fa, del resto, la strategia delle privatizzazioni italiane vide la luce sul “Britannia”, nel presupposto che le grandi Ipo di Borsa (Telecom ne fu la regina) perseguissero contemporaneamente due obiettivi: lo sviluppo dei mercati finanziari a beneficio dei risparmiatori italiani; e la modernizzazione competitiva di grandi gruppi, pubblici e non. Sappiamo tutti com’è finita: Telecom, indebitata, senza strategie, col fardello di una rete sempre meno utile all’Azienda-Paese, è simbolo efficace di un sostanziale insuccesso. E la Borsa Italiana è stata ingoiata da tempo dal London Stock Exchange.



Il declino di Telecom fu deciso da un’Opa lanciata da un “veicolo”: un castello di finanziarie costruito da investitori italiani, tuttavia massicciamente finanziati dalle banche globali. L’investment compact – viene anticipato – dovrebbe ora proporre le “newco” come strumento per accelerare gli investimenti necessari a rilanciare aziende in crisi: una normativa “3.0” dopo la legge Prodi degli anni ’80 e la legge Marzano studiata quasi ad hoc nel 2003 per il crac Parmalat. Premesso che al dissesto di Collecchio contribuirono in misura decisiva le operazioni “ombra” di banche internazionali e che Parmalat risanata è finita alla francese Lactalis, è comprensibile che il modello della “new company” torni d’attualità quando è necessario separare “bad debts” e “good assets” di una “old company” disastrata. Tuttavia i “veicoli” – spesso sinonimo di operazioni speculative a leva finanziaria – vanno maneggiati con cura: per non far pagare al sistema-Italia (lavoratori, contribuenti, risparmiatori, ecc.) il prezzo di puri e semplici “buoni affari” per investitori esteri a caccia di profitti a breve termine.

(Sul capitolo più delicato del progetto di decreto legge – l’abolizione della governance cooperativa per le banche Popolari, ha già scritto su queste pagine Giulio Sapelli. Non resta che vedere quale sarà l’articolato che uscirà dal Consiglio dei ministri e soprattutto quali saranno le “istruzioni per l’uso” che prevedibilmente arriveranno dal Tesoro e dalla Banca d’Italia. Se la decisione epocale dell'”investment compact” si presenterà come un atto di moral suasion dirigistica per accelerare aggregazioni e consolidamenti fra banche in Italia, Popolari e non, il Sussidiario ne ha già sostenuto più volte l’opportunità. Se invece l’orologio della politica e della finanza del Paese è rimasto al 2005 – quando AntonVeneta e Bnl furono acquisite da gruppi esteri per presunte ragioni di civiltà cosmopolita – allora raddoppieremo l’attenzione sulle agevolazioni fiscali che saranno concesse ai “grandi investitori esteri sopra i 500 milioni”.  Sarebbe sgradevole vedere qualche “grande investitore estero” che scala una Popolare a prezzi di saldo e poi usa a leva il risparmio italiano lì custodito in qualche “veicolo” lanciato su qualche “salvataggio a saldo”).

 

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