Forse neppure il premier Matteo Renzi – classe 1975 – saprebbe spiegare con precisione cos’è stata la Gepi. Gestione Partecipazioni Industriali: una iper-holding pubblica creata nel 1971 dall’Imi – la “Mediobanca del Tesoro” – e dai tre enti economici statali di primo livello (Iri, Eni, Efim). Cosa doveva fare la Gepi; e cosa fece?



Da Wikipedia aggiornata al 21 gennaio 2015: «Il compito istituzionale della Gepi doveva essere quello di entrare nel capitale di aziende private in crisi e di agevolarne la ristrutturazione, per poi uscirne; nelle intenzioni doveva trattarsi di interventi esclusivamente temporanei, anche se in effetti in molti casi la Gepi si trovò gestire aziende in crisi irreversibile e difficilmente risanabili. Per questo motivo nel linguaggio giornalistico la Gepi fu descritta come “lazzaretto”, “reparto di rianimazione”, “ambulatorio”, “rottamaio di aziende”. Gli interventi della Gepi spaziarono in tutti i settori, con particolare presenza nel settore tessile e nel Sud, per scongiurare gravi crisi occupazionali; tra le aziende più note nel cui capitale entrò la Gepi vi furono Innocenti e Maserati in cui la Gepi fu presente dal 1975 al 1990. Solamente per la Innocenti, nel decennio tra il 1976 e il 1986, la Gepi erogò contributi per la cifra astronomica di 185 miliardi di lire dell’epoca. Nel 1980, sempre allo scopo di tamponare crisi occupazionali, alla Gepi fu affidato il compito di prendersi in carico i dipendenti in esubero di grandi imprese private (Fiat.Montedison, Snia, Sir, Marzotto ed altre): tra il 1980 e il 1988 la Gepi assorbì circa 25.000 dipendenti, la maggior parte dei quali furono assegnati ad aziende controllate da Gepi e appositamente costituite e mantenuti in cassa integrazione per molti anni. Nel 1993 la Gepi passò sotto il diretto controllo del ministero del Tesoro; i lavoratori in Cassa integrazione furono progressivamente assegnati a “lavori socialmente utili” in carico agli enti locali o inseriti nelle liste di mobilità. La Gepi smise di intervenire nelle crisi aziendali, per trasformarsi in una finanziaria di sostegno alle nuove iniziative imprenditoriali. Nel 1997 mutò nome in Itainvest e venne poi fusa nella neocostituita agenzia Sviluppo Italia».



Scontiamo che il decreto ”Investment Compact” – varato l’altro ieri dal governo – non abbia voluto prendere apertamente a modello la Gepi quando ha previsto «l’istituzione di una società per azioni per la patrimonializzazione e la ristrutturazione delle imprese italiane». Il fine fissato dall’esecutivo è comunque il rilancio di imprese industriali che «nonostante temporanei squilibri patrimoniali e/o finanziari siano caratterizzate da adeguate prospettive industriali e di mercato».

Una prima decifrazione della manovra (Il Sole 24 Ore) precisa che «la società potrà procedere all’affitto o alla gestione di aziende, rami d’aziende, siti produttivi (un ambito che aprirà all’operazione Ilva)». Ancora: «Il capitale sarà sottoscritto da investitori professionali e istituzionali, con emissione di azioni di diversa categoria. In sostanza ci dovrebbero essere partner pubblici – come la Cassa depositi e prestiti – e privati. I primi godranno della garanzia dello Stato e saranno tenuti a versare allo Stato una quota degli utili. I privati avranno invece potere di veto sul voto maggiorato in assemblea e di veto sulle delibere relative agli investimenti. Il provvedimento prevede inoltre che la “new company” abbia sette anni di tempo (prorogabili a dieci) per cedere le partecipazioni o gli asset acquisiti e debba distribuire almeno i due terzi degli utili prodotti».



Non sappiamo a quali crisi aziendali (Ilva a parte) il decreto abbia voluto guardare in concreto. Diverte congetturare che una prima e interessante applicazione possa avvenire, ad esempio, in una media industry nazionale in oggettiva difficoltà: spacchettando e rimontando “rami”, debiti e dipendenti di Rcs e Rai, Mediaset e Il Sole 24 Ore, Espresso-Repubblica e La7, Mondadori e così via. Con la “nuova Gepi” garantita dallo Stato attraverso la Cdp come piattaforma e con il “modello Marchionne” come leva sindacale neppure troppo implicita: nel “risiko dei rami d’azienda” è verosimile che gli attuali contratti di lavoro verrebbero rottamati e sostituiti da regole new (come per la Fiat a Pomigliano).

Il contenuto più hard del decreto – la spinta determinata alle Banche popolari perché avviino una nuova fase di aggregazioni – parla comunque chiaro. L’idea di “nuova Gepi” è forse meno mediatica e assai menoappealing per i palati fini del riformismo economico o per lo stomaco forte della Borsa. Ma – dietro il gergo dei vecchi lupi degli uffici legislativi romani – non è meno “schocking” nelle prospettive di cambiamento reale degli assetti industriali del Paese.