“Immaginate un pentolone pieno d’acqua fredda nel quale nuota tranquillamente una rana. Il fuoco è acceso sotto la pentola, l’acqua si riscalda pian piano. Presto diventa tiepida. La rana la trova piuttosto gradevole e continua a nuotare. La temperatura sale. Adesso l’acqua è calda. Un po’ più di quanto la rana non apprezzi. Si stanca un po’, tuttavia non si spaventa. L’acqua adesso è davvero troppo calda. La rana la trova molto sgradevole, ma si è indebolita, non ha la forza di reagire. Allora sopporta e non fa nulla. Intanto la temperatura sale ancora, fino al momento in cui la rana finisce – semplicemente – morta bollita. Se la stessa rana fosse stata immersa direttamente nell’acqua a 50° avrebbe dato un forte colpo di zampa, sarebbe balzata subito fuori dal pentolone”. È il noto apologo di Chomsky che qualche campanello d’allarme dovrebbe suonarlo anche per noi italiani. 



Perché non è crisi la parola giusta per descrivere la presente situazione. Le crisi vanno e vengono. È molto peggio. Per tanti osservatori fuori confine, tra cui lo storico inglese dell’Italia John Foot, è declino. Un lungo, arrendevole e progressivo affondare che parte da lontano, fotografato impietosamente da un editoriale del Financial Times “How Italy lost la dolce vita”. Troppi i numeri di questo ventennale piano inclinato. Per chi volesse averne una rappresentazione numerica si vada a vedere le tabelle nel periodo in questione della banca d’Italia, del Censis o dell’Istat. 



Si veda, ex ceteris, la crescita del reddito pro-capite: rimasto praticamente identico al 1996, con un aumento di circa l’1%; tra i 28 paesi dell’Unione europea, non solo la più bassa in assoluto ma umiliante in termini comparativi, se accostata , ad esempio, al 25% e passa della Spagna o al 66% dell’Irlanda (tutti paesi, con buona pace dei “giustificazionisti”, che hanno adottato l’euro). L’incremento della produttività del lavoro e della produttività totale dei fattori: rimasta anch’essa al palo con un aumento medio dal 1992 al 2012 dello 0,4%. La dinamica del numero di laureati in rapporto a quelli dei paesi competitori: nell’anno accademico 2012-2013 abbiamo “prodotto” 34.000 laureati in meno del precedente anno, -11,5% su base annua, dato che si innesta su una imbarazzante percentuale di giovani laureati pari al 22,4% con cui l’Italia sta in fondo oggi alle graduatorie dell’Europa dei 28 il divario verso la quale area, in media, è aumentato ogni anno. Il livello degli investimenti infrastrutturali: -35% nell’ultimo ventennio. 



Il rosario dei dati ormai non fa effetto, la rana è stanca. Un tempo forse sarebbe bastato questo dato a farla saltare fuori. L’ultimo rapporto Country Brand Index 2014-2015, che ha misurato anche quest’anno l’appeal del brand Paese di 77 nazioni. Il nostro Paese, in soli 10 anni, è passato dal primo al 18esimo posto della graduatoria stilata in base al giudizio di migliaia di opinion maker mondiali. Nel primo Brand Index del 2005 il marchio Italia era primo assoluto. Nel 2007 quinto. Nel 2009 sesto. Nel 2011 decimo. Nel 2013 quindicesimo e nell’ultimo, 2014-2015, appunto, diciottesimo. 

È la percezione di un Paese in caduta libera fondata sulla realtà dei dati e delle statistiche che misurano una comunità che ormai da tempo brucia ricchezza (con l’eroica eccezione delle Pmi esportatrici) ed è incapace di reiventarsi un modo di produrne collettivamente di nuova. Il tutto con l’aggravante di un’opinione pubblica propensa a vedere questo complicato scenario quale colpa di un limitata categoria di persone (“i politici”, la “Merkel”, i “burocrati a Bruxelles”), o quale sorta di casuale iattura da cui essere salvati dai molteplici sciamani politici che propongono ricette miracolose (dall’uscita dall’euro a gigantesche immissioni di ricchezza pubblica senza passare per la fase della sua creazione privata). Ricette che paiono più il frutto di fughe collettive dalla realtà, oppio politico, piuttosto che risposte effettive alla profondità di questa crisi strutturale.

Perché la domanda da cui invece partire sarebbe opposta. Ma per quale diavolo di motivo l’Italia, dovrebbe riprendere a crescere? Tre sono i motori principali, che in un’epoca di intensa competizione tra paesi che la globalizzazione impone, spingono il Pil delle avanguardie: innovazione, capitale Umano e demografia. Tutti motori che abbiamo spenti da decenni. Vi sono ampie evidenze empiriche che la total factor productivity italiana (Hassan and Ottaviano – 2013) ha iniziato il suo stabile declino dal 1970. Lo ha fatto indubitabilmente con il parallelo ampliarsi del suo “innovation gap e del sempre maggiore “education gap”. 

E non si tratta di prendere a riferimento la dinamica nel tempo del numero di brevetti depositati per abitanti in relazione alla prima economia del pianeta, quella statunitense (paragone impietoso), ma ad esempio questo numero, insieme alla collegata percentuale di spesa su Pil in ricerca e sviluppo, di competitori quali la Svezia. Quest’ultima è passata da un’economia negli anni ’80 acutamente in crisi di competitività (e da una spesa sociale insostenibile) a un’economia che negli anni ’90 ha giocato tutte le sue carte su una traslazione “tecnologica” spendendo in ricerca e sviluppo in media il 3,5/3,8% del Pil contro la media italiana degli ultimi vent’anni che si attestata tra l’1 e 1,3% del Pil. L’attuale leadership tecnologica in Europa, non cade dal cielo, deriva da questo massiccio investimento sul futuro, dal forte raccordo tra sistema delle imprese e mondo universitario e della scuola in generale, ma soprattutto da una feroce convinzione: nella scuola e nell’economia del sapere riposa l’unica speranza di continuare a prosperare. 

Nel 2012 in Italia solo il 18% della forza lavoro aveva una qualche educazione terziaria contro il 32% della Svezia. Questo divario è nel tempo aumentato non solo in termini quantitativi ma secondo molti indici internazionali anche qualitativi. Vi sono svariate ricerche che evidenziano a sufficienza lo stretto rapporto tra educazione universitaria e spinta all’innovazione di un sistema laddove l’educazione secondaria e primaria è più congeniale alla riproduzione di tecnologie importate (si veda ad esempio, James, Madsen e Rabiul Islam – 2006). Com’è tristemente noto il sistema scolastico italiano aveva invece dagli anni ’70 in poi perseguito un obiettivo di equilibrio tra egualitarismo ed efficienza finendo per fallire miseramente su entrambi i fronti. Abbiamo dunque meno laureati, rispetto a molti nostri competitori, e di qualità più scadente. Il declino demografico e la tendenza all’emigrazione in crescita di questa fascia di lavoratori – nel 2010 il 6,55% dei laureati svedesi è emigrato contro il 9,14% degli italiani – aggravano questo quadro del tutto ostile alla crescita. 

Se questo è vero perché accogliere con sorpresa l’ultimo dato del Fmi che dimezza la stima di crescita italiana per il 2015 allo 0,4%? Ma soprattutto, se a mancare sono i propulsori di una crescita duratura e sostenibile, è corretto ridurre tutto il dibattito politico all’opportunità di allentare i cordoni della borsa? Al come “mettere più soldi in tasca agli Italiani” (80 euro o altro)? Il nodo è però forse un altro. L’anomalia tutta nostra, tra i paesi guida occidentali, dell’assenza di visioni radicalmente alternative nell’emisfero politico opposto all’area socialista, laddove tradizionalmente non solo le politiche dell’offerta sono di casa, ma sono culturalmente plausibili importanti revisioni della spesa pubblica riorientandola alla crescita di lungo periodo (come fatto, ad esempio da Cameron in Inghilterra). 

E tuttavia il futuro di questo campo non lascia ben sperare. Le sue fattezze assumono ogni giorno di più a suon di sondaggi il volto di un capitan fracassa. Di chi cioè, lungi dal porsi soverchie e noiose domande sulle radici dell’attuale stagnazione, propone, non senza sprezzo del ridicolo, aliquote fiscali uniche al 15%, senza dar prima atto del risparmio di un singolo euro dei 534 miliardi di spesa corrente, abbinandole per giunta ad aumenti devastanti di spesa conseguenti l’abrogazione della Legge Fornero. Legge che, prescindendo da ogni valutazione di equità generazionale, consente all’Italia risparmi per circa 80 miliardi di euro fino al 2021 (al netto dei sei interventi sugli esodati adottati finora). In attesa di un salto in avanti di quell’area politica, ogni eccesso di ottimismo sul destino della rana pare francamente ingiustificato.