Tutti coloro che in questi giorni cantano le lodi del bazooka probabilmente non sanno cos’è un bazooka. All’inizio della Seconda guerra mondiale, i fanti andavano contro i carri armati ultimamente usando i fucili anticarro della Grande Guerra, praticamente impotenti: quando i carri migliorarono mobilità e protezione, infatti, i fucili diventarono solo un peso inutile per i fanti. A quel punto fu necessario utilizzare un tipo diverso di arma, i lanciarazzi, che furono sviluppati sia dai tedeschi che da inglesi e americani Quello degli yankee era il M1 Rocket Launcher 2.36, il Bazooka, che diede risultati soddisfacenti negli ultimi anni di guerra, ideato da Edward Uhl nel 1942. Il soprannome bazooka deriva dal fatto che un uomo, addetto ai collaudi, disse che il tubo assomigliava a uno strano strumento musicale, usato dall’attore radio Bob Burns per creare effetti comici. In effetti, il bazooka, se non è parte di una strategia ben pensata e di una tattica ben coordinata, ha effetti limitati. Vi ricordate il detto di Totò: Bazooka, ogni colpo una buca, ossia più si spara e meno si centra il bersaglio?
Eppure i mercati esultano. Non occorre essere il Premio Nobel Robert Shiller che con una fine teoria ha dimostrato come l’esuberanza delle piazze finanziarie possa essere “irrazionale”. I mercati brindano perché in caso di mancato accordo si sarebbe andati allo sfascio. Alla Banca centrale europea le bocche sono cucite, ma nei felpati saloni del Frankfurter Hof si bisbiglia che Draghi avrebbe minacciato le dimissioni, mettendo in crisi Bce ed eurozona. Ci sarebbe un accordo segreto – da lui smentito – con Renzi per farlo eleggere Presidente della Repubblica italiana, proprio per farlo andare lontano dalle rive del Meno.
In effetti, nella storia degli ultimi due secoli, i mercati hanno esultato solo per pochi giorni o settimane ad accordi monetari redatti unicamente da tecnici e politici, tranne che dopo una guerra mondiale, quando si doveva ricostruire il sistema dalle fondamenta, e quindi la politica, aiutata da grande tecnica (Keynes, White), doveva scendere in campo.
Vi ricordate l’intesa del Smithsonian Institution del dicembre 1971, pubblicizzata dal Presidente degli Stati Uniti a reti unificate come “il più grande accordo monetario della storia dell’umanità” e lodato con pari enfasi dalla Commissione europea? Ebbe vita breve (tre mesi) e contrastata, arricchendo la speculazione sui cambi. Anche il Trattato di Maastricht venne esaltato come veicolo di crescita nella stabilità per gli Stati dell’unione monetaria. Soprattutto, sei mesi dopo la firma, Gran Bretagna, Danimarca e Italia ne chiesero la sospensione (dopo che molti, anche loro concittadini, si erano gonfiati i portafogli alle spalle di governi e banche centrali). Londra e Copenhagen restarono fuori. Roma prese la via del rientro, un percorso come quello per andare al Santuario di Compostela. Lo guidavaCarlo Azeglio Ciampi, che fece pagare agli italiani un dazio di un aumento di sette punti percentuali della pressione fiscale sul Pil. Da allora siamo a sviluppo rasoterra.
Oggi nessuno sa come i mercati reagiranno a un accordo contro il quale forze politiche dello stesso azionista di maggioranza (la Repubblica Federale Tedesca, unitamente ad Austria, Finlandia, Estonia, Lettonia) hanno espresso una tale opposizione che un gruppo di distinti cattedratici del diritto e dell’economia ha fatto ricorso alla Corte Suprema (che attende pazientemente sulla riva del Reno superiore, a Karlsruhe, l’evolversi degli eventi). Il problema è politico, non giuridico. Lo esprime con grande chiarezza Antonio Luca Riso dell’ufficio legale Bce nel documento pubblicato nel numero speciale di Imfs (Interdisciplinary Studies in Monetary anf Financial Stability) dedicato alle Outright Monetary Transactions (OMT) e pubblicato a metà gennaio.
Per “politico” deve intendersi che tutto dipende dalle altre politiche che gli Stati dell’eurozona metteranno in campo per dare corpo alla possibile politica di ripresa. Ovviamente, il tasso d’integrazione nell’eurozona sta nel fatto che le politiche di uno Stato incidono anche su quelle degli altri. Ad esempio, si dovrebbe dare maggiore attenzione alla crescita della propria domanda aggregata che, pur se in misura minore di quanto sostengono numerosi media e tanti politici poco informati, può avere un effetto di trazione su altri soci del club. In Italia, tuttavia, ci siamo inflitti dei nostri mali: uno studio del Centro Studi Impresa Lavoro documenta che dal 2011 l’imposizione su conti correnti e investimenti è aumentata del 130% da 6,9 a 15,9 miliardi di gettito, azzoppando imprenditori e consumatori proprio in una fase in cui da recessione si scivolava in deflazione.
Cosa fare? Uno stop alla pressione tributaria, e se possibile una sua riduzione con paralleli tagli alla spesa corrente. Sono misure che si possono mettere in atto subito agendo su quel capitalismo (o socialismo) regionale e comunale, analizzato dal “segretato” Rapporto Cottarelli (alla faccia della trasparenza e della democrazia). Si può anche mettere in atto immediatamente un programma di privatizzazioni di vaste dimensioni; unitamente alle misure Bce, tale programma dovrebbe portare a una riduzione almeno del 30% dello stock entro il 2015 e rimuovere il blocco principale alla ripresa. In parallelo occorre rilanciare la politica dei prezzi e dei redditi, al fine di porre fine alla discesa nella povertà dei ceti medio bassi e liberalizzare i mercati di merci e di servizi (segnatamente delle professioni un tempo dette “liberali”) per aumentare, tramite la concorrenza, la produttività.
Il Governo Renzi è pronto a mettere in atto questa batteria? Altrimenti – ricordiamoci Totò – il bazooka di Draghi farà “buca”.