Non solo le esportazioni, ma anche alcuni dati sulle importazioni e sul risparmio delle famiglie sono segnali che fanno ben sperare sulla crescita del nostro Paese per il 2015. E se la pancia piena accumulata negli ultimi cinquant’anni ci ha un po’ rallentato, la crisi ci ha resi più razionali nel consumo e non ha sopito la “storica e innata” capacità imprenditoriale nostrana che, contrariamente all’opinione più diffusa, continua ad avere frecce al suo arco. Dov’è il segreto? Nelle dimensioni piccolo-medie delle imprese, le più adeguate per creare prodotti di qualità, come dice a ilsussidiario.net Paolo Preti, direttore del master Piccole imprese della Sda Bocconi.



Partiamo dalle stime sulla crescita per il 2015. Il Centro Studi di Confindustria parla di + 0,5% con un consolidamento nel 2016 (+1,1%). Come commenta questi dati?

Sono previsioni di buon senso, che mi trovano d’accordo. Si tratta in fondo di dati che confermano l’andamento in atto negli ultimi mesi del 2014: una crescita intorno allo “zero virgola qualcosa” con le esportazioni come traino. Io sarei però un po’ più ottimista.



Su quali basi?

In linea, ad esempio, con lo Studio presentato dal presidente di Assolombarda Gianfelice Rocca, qualche giorno fa, che vede in particolare Milano e la Lombardia tornare al centro della crescita, anche trainata dall’Expo e dal settore agro-alimentare e, in genere, dai segmenti di qualità, dalle nicchie e quindi da imprese di piccola-media dimensione.

Prevede che il mercato interno crescerà?

Ci sono dei dati sul porto di Genova molto interessanti: è tornato a dare dei risultati estremamente positivi sia in termini di numeri di container partiti (segnale importante per l’export), sia di container in ingresso. Non è da escludere – anche se è difficile avere dei riscontri – che in questo aumento delle importazioni ci sia il segnale di una ripresa del mercato interno.



Eppure, nella quarta settimana del mese le famiglie vanno poco al supermercato…

È vero, però io credo anche che le persone, con la crisi, si siano abituate a sprecare meno, cioè a un rapporto più efficiente, meno consumista con le cose: non compriamo più cinque vestiti per buttarne via tre quando non sono più di moda, ma ne acquistiamo due e li facciamo durare più a lungo.

Poi bisogna vedere quanto di questi soldi risparmiati vengono investiti per creare attività, lavoro…

Qui c’è un altro elemento importante da segnalare: nel 2014 le famiglie italiane hanno ripreso a risparmiare, come segnala anche l’aumento della raccolta dei fondi d’investimento. Questo di per sé è estremamente positivo, però chiaramente, se non si traduce in consumo, il mercato interno tenderà a restare fermo. Anche se le famiglie stanno meglio, le imprese che servono il mercato interno continueranno ad andare male.

 

Le prospettive di ripresa dell’Azienda-Italia sono più legate a fattori interni al Paese, oppure a fattori esterni (politica monetaria europea, prezzo del petrolio…)?

Per quanto sia i fattori interni (un costo dell’energia più basso, una legislazione più a favorevole, ecc.), sia il contesto esterno possano facilitare o ostacolare, lo sviluppo di questo Paese non è in mano né al governo, né all’Europa, ma agli imprenditori e ai loro collaboratori.

 

Però i vari contesti incidono sull’attività delle imprese…

Sì, ma anche qualora le leggi italiane e il contesto internazionale fossero i migliori in assoluto, ma non ci fossero imprenditori e collaboratori che hanno voglia di fare bene (come per fortuna in questi anni hanno sempre fatto), di investire e di mettere in pratica idee per realizzare prodotti e servizi, creando occupazione, soprattutto un Paese come il nostro, che non ha materie prime e nemmeno una grande tradizione di ricerca e brevetti, non potrà riprendersi.

 

E questo accadrà?

Si è sempre detto che le imprese italiane erano troppo piccole per competere nei mercati internazionali, e appena il mercato interno si è fermato, nonostante le loro dimensioni, hanno iniziato a macinare numeri da record sui mercati internazionali. Abbiamo una capacità imprenditoriale innata, storica, che spesso non agevoliamo, ma c’è.

 

Che esiti crede avrà il confronto interno al board Bce sul “Quantitative easing” nell’eurozona?

Io credo che alla fine l’impostazione di Draghi vincerà su quella della Bundesbank. Anche in vista delle elezioni che ci saranno tra un mese in Grecia, con il rischio della sua fuoriuscita dall’euro, la Germania e i suoi rappresentanti nella Bce arriveranno a più miti consigli sull’acquisto del debito pubblico dei paesi Ue.

 

Qual è la sua valutazione sul Jobs Act? Può considerarsi un inizio reale di una riforma del mercato del lavoro in Italia?

Credo che vada nella direzione giusta anche se si sarebbe potuto fare di più. Escludendo il settore pubblico dalla misura del Jobs Act si rischia di dare l’idea che si tratti di misure negative, ma non è così. Era forse il momento di dare un segnale anche a tutti i lavoratori del pubblico che, per loro fortuna, sono i meno toccati da questi anni di crisi, ma che hanno significato un cambiamento per tutti.

 

La direzione giusta per lei è quella della maggiore flessibilità in uscita?

Un imprenditorie a capo di un’azienda sana ha nei propri collaboratori la sua risorsa principale e, soprattutto nelle piccole imprese, il rapporto tra imprenditore e collaboratore è fortissimo: benché con compiti diversi sono sulla stessa barca. Chiaramente un imprenditore è molto più restio ad assumere se è impossibilitato a privarsi dei lavoratori che, ad esempio, non hanno voglia di lavorare.

 

Il principale punto di forza dell’azienda-Italia?

Contrariamente a quanto si dice, il punto di maggior vantaggio è la piccola-media dimensione delle imprese perché secondo me, lì c’è la possibilità di fare qualità. Noi non dobbiamo competere con le aziende estere su prodotti standard, ma su prodotti il più possibile personalizzati e di qualità, e questo è più facile che avvenga nel piccolo.

 

“Piccolo è bello”?

Io non dico “piccolo è bello”, ma “grande non è necessario”. Ogni azienda deve trovare la propria dimensione competitiva ideale e quella per le aziende come le nostre che devono fare qualità è nel piccolo.

 

Il principale punto di debolezza?

Spesso è nel successo che queste imprese hanno. Le nostre sono imprese di successo, contrariamente a quanto riportano sovente i mass-media, e il successo spesso annebbia. Faccio una rapida analogia.

 

Prego.

Il boom economico italiano si è verificato dopo la Seconda guerra mondiale: è nel momento della fatica, della pancia vuota che si cresce, che si dà fondo a tutte le energie creative, fisiche, materiali e immateriali che servono per uscire da una condizione di disagio, di debolezza. Questo nostro benedetto Paese, che è ancora tra i primi dieci al mondo per condizioni di ricchezza economica e per qualità di vita delle persone, solo settant’anni fa era nelle condizioni di mandare all’estero i suoi cittadini per cercare lavoro, anche nelle miniere. Cinquant’anni dopo, le pance sono tutte un po’ più piene, e quando le pance sono più piene si fa sempre un po’ più fatica a muoversi.

 

(Silvia Becciu)