È una Legge di stabilità coraggiosa quella varata ieri dal Consiglio dei ministri, che riflette una convinzione probabilmente corretta: ora o mai più. L’esecutivo ne è consapevole: la decisione di procedere ai super-ammortamenti per il solo 2016, possibile anno della svolta, va in questa direzione. O una scossa subito oppure le cose, in un mondo che sta consumando le cartucce degli stimoli monetari ma non fa emergere una risposta convincente alle paure sul futuro delle classi medie, rischiano di avvitarsi. 



Anche se non è facile, né saggio voler ipotecare il futuro, si moltiplicano infatti i segnali di un certo affaticamento dell’economia globale, l’unica fonte di ossigeno per l’Italia durante la marcia negli anni della recessione. Le stime del Fondo monetario internazionale segnalano una contrazione della crescita sotto il 3%, condizionato da alcune situazioni a rischio: la Cina, la cui influenza sull’import-export globale è quasi eguale a quella degli Stati Uniti. Ma anche, per citare due casi “caldi”, Brasile e Turchia, i due mercati in cui la presenza italiana è più forte. Non è una bella notizia: negli ultimi 25 anni l’Italia ha compiuto l’exploit di registrare una ripresa in un mondo in frenata una sola volta. Correva l’anno 1998-99, il boom fu favorito dall’ingresso nel club di testa dell’euro. 



Per questo motivo non sarà affatto facile crescere dell’1,6% nel 2016, come è opportuno, anzi, per certi versi necessario, fare per recuperare qualche posizione dopo la grande crisi che ci è costata un buon quarto dell’apparato produttivo (il Pil 2016 sarà ancora inferiore a quello di inizio millennio) e accelerare il circolo virtuoso dei conti pubblici. Prometeia ha già provato a misurare gli effetti della crisi sul Bel Paese: il tasso di crescita si ridurrà probabilmente all’1,2%, in parte per le difficoltà della congiuntura tedesca, ma soprattutto per il rallentamento degli scambi internazionali, legati alla crisi del potere d’acquisto dei Paesi emergenti e al “new normal” (deflazione, calo della propensione al rischio) che sta diventando qualcosa di più di una frenata congiunturale. 



Insomma, se nel 2015 Matteo Renzi ha potuto contare su fattori congiunturali senz’altro positivi, nel 2016 dovrà fare i conti con una situazione più difficile: il basso prezzo delle materie prime rischia di tradursi, a lungo andare, in una sorta di boomerang. Non è detto, però, che la sua scommessa si riveli temeraria. È necessario però che l’azione di governo e delle Parti sociali contribuisca ad accelerare la staffetta della domanda. Ovvero che i minori acquisti dall’estero siano compensati finalmente dalla ripresa dei consumi interni. 

In parte aiuterà la crescita del turismo, se saremo in grado di sfruttare la stagione propizia per la fascia Nord del Mediterraneo. In parte contribuiranno i provvedimenti espansivi che si cercherà di salvare dalla scure di Bruxelles: abolizione della tassa sulla prima casa, entrata a regime della defiscalizzazione per i nuovi assunti oltre agli sgravi sugli investimenti. In parte si potrà tentare di trasferire lo “spirito delle Poste”, cioè il successo annunciato dell’Ipo in corso, sulle altre privatizzazioni ferme da tempo immemorabile. Ma per avviare in maniera consistente la macchina, sarà necessario molto di più. 

Certo, si dovrà ricorrere, più prima che dopo, allo scudo di Mario Draghi che tempo poche settimane allargherà gli acquisti di titoli della Bce. Probabilmente non basterà, soprattutto se la Fed procederà a un aumento che sembra però meno probabile. Ci vorranno nuovi passi in avanti sulla strada delle riforme strutturali. Dopo anni di proclami, dobbiamo prender atto che, secondo l’osservatorio di Assolombarda, il 4% dei ricavi di una piccola azienda vanno in fumo in burocrazia. 

In attesa di una battaglia davvero efficace su questo fronte è comunque necessario riscrivere il confronto sulla produttività, che è qualcosa di ben diverso e più complesso del semplice calo del costo del lavoro. In questi anni il salario reale di moti giovani è sceso a livelli infimi. Le novità legislative, prime fra tutte la flessibilità in semi-uscita dei lavoratori dai 63 anni in su, può stimolare la ripresa dell’offerta di posti. Ma non basta. Si tratta di ripensare il ciclo produttivo alla luce della domanda interna e internazionale concentrando gli sforzi sulle cose che si possono vendere. Anche alla luce delle nuove tecnologie. 

Pochi lo sanno, ma l’Italia (merito di Corrado Passera) dispone della piattaforma di crowfunding meglio regolata e protetta dalle leggi del mondo intero: sfruttiamola. Al di là del dramma della disoccupazione giovanile, emerge che in buona parte del Nord sono scoperte posizioni medie (i periti, ad esempio) a conferma degli errori fatti nella scuola. Gli esempi potrebbero continuare. Quel che conta è che c’è un’Italia che si è rimessa a marciare e che deve dare il ritmo di marcia al resto del Paese: la produttività, in questi tempi di drammatica competizione dove è sempre più difficile vendere beni e servizi, è il frutto di una politica in cui le parti sociali non pensano a dividersi una torta che non c’è o a proteggere le ultime briciole, ma cercano sbocchi per uscire dall’emergenza.