Perché parlare di recessione? Le cose per il Bel Paese non vanno affatto male: l’economia italiana cresce. Forse troppo lentamente, ma cresce. E le riforme, a fatica, vanno avanti rafforzando negli investitori internazionali la sensazione che meriti puntare sull’economia di casa nostra, finora la più depressa tra i partner forti dell’Ue. E pur senza gioire delle disgrazie altrui possiamo prender atto che dietro la lavagna finisce più spesso la Germania (prima Volkswagen, oggi la batosta dei conti di Deutsche Bank) che la solita Italia. Prende così corpo un obiettivo forte, il più forte dai tempi della nascita dell’euro: una crescita italiana superiore a quella tedesca.



Tutto bene, ma, come ci ricordano i numeri che emergono dai lavori del Fondo monetario internazionale, l’economia mondiale non sta affatto bene. E questo, prima o poi (più prima che poi), rischia di frenare anche la nostra rincorsa. In realtà, come sempre accade, gli economisti sono divisi: da una parte c’è chi sottolinea il rischio di ricadere nella recessione, come (o peggio) nel 2008. Altri sono meno drastici. Al limite, ricorda Alessandro Fugnoli, la situazione ricorda quella del 1993-94, quando l’aumento dei tassi Usa portò alla crisi messicana (e al tracollo della vecchia lira), o quella del 1997-98, l’anno dell’esplosione della crisi asiatica e del crollo russo. In entrambi i casi, come sta accadendo oggi, ad andare in tilt furono Paesi ai confini dell’economia globale. Ma Usa ed Europa furono toccati solo in parte. 



Stavolta, poi, le nazioni più ricche possono contare su un retroterra finanziario più solido e meno speculativo: le Borse Usa segnano il passo, non si avvertono segnali di bolle e di boom dei consumi sulle due rive dell’Atlantico. Le banche centrali, infine, governano la situazione con molto pragmatismo: un occhio rivolto alla dottrina (che invita la Fed ad alzare i tassi), l’altro alla realtà (che consiglia di lasciare i tassi bassi). 

Altra opinione è quella di Lawrence Summers, l’autorevole (e potente) ex segretario al Tesoro Usa. L’anno scorso, in occasione dell’assemblea del Fondo, l’ex rettore di Harvard lanciò il tema della “stagnazione secolare”, ovvero il rischio che l’economia globale rischiasse di entrar nel tunnel di una depressione di lunga durata. Stavolta Summers torna alla carica con una messe di dati inquietante. I segnali che la congiuntura, come il Titanic, si muove verso un enorme iceberg si sono moltiplicati. Se si guarda alle stime del Fmi, dobbiamo prende atto che dal 2012 in poi le previsioni si sono sempre modificate al ribasso: per gli Usa, la previsione di crescita al 2020 si è ridotta del 6% rispetto ai calcoli di tre anni fa. Per l’Europa il calo è del 3%, per gli Emergenti del 10%, per la Cina addirittura del 14%.



L’andamento dei tassi, poi, dimostra che i mercati credono nella deflazione di prossima venuta: la previsione per i tassi reali è di un prolungato periodo di interessi zero, almeno per dieci anni. Per qualcuno è un effetto collaterale del Qe. Ma, nota Summers, gli esperti prevedevano un aumento del costo del denaro in dollari dopo la fine degli acquisti della Fed. Al contrario, i livelli non si sono mossi o, come sta accadendo, addirittura volgono al basso. Si profila, insomma, una fase di denaro a zero con effetti negativi su occupazione, produttività e, di riflesso, di crescita delle ineguaglianze. 

Insomma, le terapie adottate finora sono insufficienti. Non solo non devono crescere i tassi, ma occorre una grossa scossa a livello planetario, tipo quella che Mario Draghi diede all’euro nel 2012. In concreto, il Qe aiuta ma non basta, occorre che le banche centrali si impegnino in un piano massiccio di interventi a favore dell’economia reale, sottoscrivendo strumenti di crescita (tipo gli eurobond) senza inseguire l’autolesionistica battaglia contro il debito. “Se negli anni Duemila – spiega Summers – c’è stato un eccesso di credito all’economia che ha fatto esplodere il debito, oggi viviamo la situazione opposta: nel mondo, come dimostra l’andamento dei titoli, c’è troppo poco debito”. I parametri di Maastricht, tra cui il tetto/obiettivo del 60% di debito sul Pil, erano adeguati a una situazione in cui il costo reale del denaro era di 5 punti sopra l’inflazione. Ora bisogna che la mano pubblica si spinga molto più in là. 

Potremo aprire i cordoni della borsa solo dopo le riforme strutturali, è l’obiezione ripetuta in sede europea, a partire dallo stesso Draghi. Ma in questo modo, obietta Summers, rischiamo di intervenire in ritardo sul problema più importante: aumentare la crescita, sconfiggere gli umori negativi che fanno sì che crescono i risparmi (in Italia 300 miliardi nell’ultimo anno) ma calano gli investimenti e si consolidi l’avversione al rischio. Occorre, al contrario, fare presto, prima che si manifesti in tutti i suoi aspetti più negativi la frenata della Cina e degli Emergenti.

Difficile che i consigli di Summers influenzino più di tanto i governi, ma il tarlo del dubbio ormai si sta facendo strada sia in Usa che in Europa. Dopo gli anni dell’austerità europea e delle ricette neo liberali Usa, c’è voglia di qualcosa di nuovo. Intanto godiamoci, senza illuderci o gonfiarci troppo il petto, le buone perfomances italiane del 2015, l’anno dell’Expo.