In questi giorni, come capita ogni tre mesi, l’Italia delle imprese quotate in Borsa dà i numeri. È l’occasione giusta per esaminare più da vicino le chance del Bel Paese di lasciarsi per davvero alle spalle la recessione. Ancor di più per misurare la capacità di tenuta e di crescita della ripresa che ormai avanza. Le buone notizie, una volta tanto, non mancano. 



Partiamo dall’industria. Il 2015, secondo le ultime stime del rapporto Nomisma-Banca Intesa, si chiuderà con un progresso del fatturato, a prezzi costanti, dell’1,4%. A far la parte del leone è l’automotive, cui si devono circa i due terzi dell’incremento, grazie al balzo della produzione e delle vendite sia sul mercato domestico che a livello internazionale (+23% la produzione e +17% il fatturato). Grazie alle esportazioni di Fca negli Stati Uniti, l’Italia ha sorpassato i questi mesi la Francia nella classifica sui grandi esportatori verso gli States, cosa mai successa dopo lo scoppio della crisi. La buona performance si riflette sulle quotazioni di Fiat Chrysler, largamente in testa nella classifica per performance del titolo: +47% nell’ultimo anno, contro una media di poco superiore al 5%, condizionata dalla crisi di Volkswagen. 



Ma il titolo del gruppo italo-americano, per la verità, segna da qualche tempo il passo: -3,26% negli ultimi sei mesi, nonostante il traino della quotazione Ferrari. I buoni risultati sul fronte europeo hanno solo in parte compensato i problemi del Sud America. Intanto, gli analisti danno per assai probabile la frenata del mercato Usa dopo il prossimo aumento dei tassi: le vendite sono cresciute costantemente negli ultimi 70 mesi, ma con il propellente decisivo degli acquisti a rate. L’aumento del costo del denaro, perciò, non sarà indolore. 

Andamento analogo in Borsa per Brembo: +53% negli ultimi 12 mesi, +10% nell’ultimo semestre. La multinazionale bergamasca dovrà probabilmente scontare la crisi dei clienti tedeschi, a partire da Porsche, oltre alla situazione difficilissima del mercato brasiliano, che, nel frattempo, ha relegato Cnh, la multinazionale dei camion e delle macchine agricole controllata da Exor, al fondo delle performance dell’indice Ftse Mib.



In sintesi, l’auto che ha trainato la ripresa ha buone possibilità per ripetersi nel prossimo futuro. Ma dovrà scontare due handicap: la frenata degli acquisti da parte dei Paesi emergenti e la ricaduta dello scandalo Volkswagen che promette sviluppi inquietanti per l’indotto italiano della casa di Wolfsburg (circa un miliardo di acquisti nel solo 2014), che nel Bel Paese tra l’altro possiede Ducati e Lamborghini oltre all’Italdesign, già testa pensante dello stile Volkswagen, decapitata due volte in pochi mesi, prima con l’uscita di Giorgetto Giugiaro, poi con quella altrettanto grave di Walter De Silva. 

Sarebbe auspicabile, a questo punto, che, magari con una spinta dell’esecutivo, il settore dell’indotto si emancipasse dalla visione eurocentrica per far rotta verso Oriente: gli incentivi di Pechino per le utilitarie (a ottobre le vendite sono cresciute del 13,3%) possono dare una spinta a un comparto di mercato in cui l’industria italiana ha da sempre una posizione leader. 

Le incertezze sui mercati esteri, meno brillanti del previsto, sono la nota più inquietante per l’intera industria manifatturiera. Le esportazioni hanno risentito dei tanti elementi di incertezza che hanno frenato il commercio mondiale a inizio anno (dalla crisi russo-ucraina al rallentamento di alcuni emergenti, Cina in primis), con risultati estremamente eterogenei sui diversi mercati mondiali: il +40% negli Stati Uniti e la forte espansione in Turchia, Emirati Arabi Uniti e Hong Kong più che compensano il -30% in Russia e i cali in Brasile e Giappone.

Ma per il futuro non resta che affidarci al solito Mario Draghi: le previste robuste misure che la Bce adotterà il 3 dicembre per combattere la deflazione avranno per effetto il calo dell’euro a tutto vantaggio della competitività italiana. Parlando ieri al Parlamento europeo, il Presidente della Bce ha osservato che “i rischi al ribasso che derivano dall’economia globale e dal commercio sono chiaramente visibili, la dinamica dell’inflazione si è un po’ indebolita principalmente a causa dei prezzi del petrolio più bassi e dagli effetti ritardati di un tasso di cambio dell’euro più forti di inizio anno”. Inoltre, le pressioni dei prezzi, come quelli alla produzione, sono rimasti “molto sottotono”. Perciò, ha spiegato il banchiere, “se concluderemo che il nostro obiettivo di stabilità dei prezzi nel medio termine è a rischio agiremo usando tutti gli strumenti disponibili per assicurare che sia mantenuto un grado appropriato di accomodamento monetario”. 

Una musica soave per le orecchie del made in Italy. Non a caso anche il lusso, dopo tanto penare per i problemi della Cina, è pronto a ripartire all’attacco dei mercati asiatici. Non facciamoci però troppe illusioni. La svolta del modello cinese, da economia manifatturiera ai servizi, comporterà una riduzione della crescita di Pechino per i prossimi anni. 

Purtroppo Piazza Affari non è più in grado di fornire indicazioni sull’andamento di quella che fu un’industria leader, gli elettrodomestici, dopo l’uscita di Indesit dal listino. E lo stesso vale per altri comparti: il settore mobili (cancellato dopo opa e delisting di Poltrona Frau) o l’alimentare, in attesa dello sbarco di Eataly (ma Ferrero e Barilla restano lontani). La mancata esposizione sul listino fa sì che ben pochi si siano accorti della crescita irresistibile della farmaceutica italiana: a fine anno, di questo passo, l’industria italiana potrebbe effettuare un sorpasso storico sulla Germania collocandosi al primo posto per fatturato in Europa. Ma ancor più interessante è la crescita degli investimenti in ricerca e sviluppo (oltre il 40%) e dell’occupazione, 5mila nuovi posti di lavoro in un anno. È uno di quei miracoli che stenta a emergere nel frastuono delle lamentele più o meno giustificate. In territorio marcatamente positivo anche l’elettronica e altri settori più a valle della filiera chimica (vedi il largo consumo).

Non mancano, insomma, i segnali del rinnovamento di una struttura produttiva largamente segnata dagli anni della crisi. Basta uno sguardo alle Ipo che si affacciano sull’Aim, il mercato alternativo della Borsa Italiana, o alle 41 aziende che seguono il programma Elite di Piazza Affari (una sorta di master in vista della quotazione), per avere un’idea del fermento generale oscurato dalla ritirata generale di nomi storici. In questi mesi la Borsa italiana ha perduto, almeno per ora, nomi storici come Pirelli, e si accingono all’addio di Ansaldo Sts e Italcementi. Telecom Italia, intanto, parla sempre più francese così come Parmalat, protagonista del conflitto con gli agricoltori sul prezzo del latte. Non è il caso di deprimersi o parlare di svendite: l’importante è ricreare le condizioni che consiglino gli operatori internazionali a investire nel nostro Paese invece, come spesso accade, di fare ostruzione.

In questa situazione, il futuro dell’economia italiana si gioca in buona parte in banca. I segnali sono incoraggianti. Moody’s ha alzato il giudizio sulle banche, scontando una possibile ripresa della redditività (modesta) a fronte della riforma delle Popolari e dei risparmi sui costi (vedi Unicredit). Ma la vera partita si gioca sulle sofferenze: un macigno da 350 miliardi, eredità della crisi che, in assenza di una bad bank per riciclare e rivendere le partite incagliate, è destinato a salire fino al 2018. 

L’Ue, con argomenti molto discutibili, si è finora opposta. L’Italia si accinge ora a fare la voce grossa. A ragione perché, senza bad bank, il credito salirà con il contagocce nonostante la spinta della Bce. E senza credito la ripresa su cui scommette (con una certa imprudenza) Matteo Renzi si fermerà per strada.