Se vogliamo affidarci alle statistiche come barometro, gli ultimi dati positivi registrati dall’Istat con indice di fiducia delle imprese e da Adaci/Markit con l’indice Pmi dei direttori acquisti dicono che il tempo si sta rimettendo al bello. Gli indici risalgono quasi costantemente e raggiungono nuovi massimi dopo oltre tre anni. Ripresa un po’ anemica, ma sempre più convincente.
Qualsiasi sarà il livello di crescita registrato dal Pil nel 2015, è comunque evidente che il clima che si respira tra gli imprenditori è diverso e finalmente popolato da qualche sorriso e voglia d’investire.
L’Italia delle imprese sogna uno scatto deciso in avanti e lo fa nonostante le riforme siano ancora fonte di polemiche, di annunci e delusioni, nonostante le iniezioni di liquidità della Bce abbiano trasmesso troppo poco coraggio alle banche, nonostante il settore pubblico e la sua burocrazia persistano nel zavorrare la voglia di rilancio. Penso sia inevitabile per molti rispolverare il ricordo del miracolo italiano del dopoguerra, perché i sette anni di crisi sono stati come e peggio di una guerra per il tessuto economico nazionale.
Nelle parole di molti imprenditori di tutte le taglie e settori traspare la stessa energia e determinazione, temprata dalla resistenza ai sette anni di carestia, ma è bene togliersi subito l’illusione che nel 2015 possa bastare il sudore della fronte e l’impegno come negli anni ’50 e ’60. Il mondo che circonda le imprese italiane, pervicacemente piccole e familiari anche quando credono di essere grandi, è radicalmente mutato e non consentirà veri e duraturi progressi a chi è incapace di accoppiare alla voglia di fare e alla speranza le nuove competenze e le tecnologie indispensabili a competere con gli stessi mezzi dei concorrenti internazionali.
Prendendo a prestito metafore sportive, il tennis di oggi si gioca a una velocità nettamente superiore a quello di Pietrangeli e Sirola, l’agilità e l’altezza media dei giocatori di basket è cresciuta notevolmente dai tempi di Riminucci, e delle scarpette rosse, il calcio usa 5 arbitri e la tecnologia per governare i match. Allo stesso modo le nostre piccole e medie imprese devono cambiare passo e abituarsi alla nuova velocità del mercato.
Dato che la tendenza a generalizzare anche i problemi è pericolosa, vorrei essere il più concreto possibile proponendo tra tanti cinque suggerimenti agli imprenditori.
Meritocrazia e gestione del potenziale umano non sono né un optional, né una facciata. Solo le migliori imprese attirano i migliori talenti con sistemi organizzativi aperti, creativi, che stimolano cambiamento e innovazione continua, ponendosi in contrasto con le macchinose organizzazioni rimaste gerarchiche e piramidali, che stanno soccombendo una dopo l’altra, come mostrano banche e assicurazioni. Vale nella grande dimensione come nella piccola. Google paga 4.000 euro al mese un neo laureato italiano e inevitabilmente si prende il meglio. I giovani sono sempre meno attratti da marchi blasonati e sempre più dal clima aziendale. Le start-up stanno moltiplicandosi per lo stesso motivo, sono libere da gerarchie, sono il paradiso della creatività.
Le grandi piattaforme web per e-commerce (quelle che non esistevano solo 10 anni fa) stanno spiazzando quasi tutti i meccanismi tradizionali del commercio e in tanti settori “protetti”. Per i nostri imprenditori è indispensabile capire in fretta come si muovono questi nuovi animali e perché crescono così tanto acquistando competenze e non i capannoni o gli impianti. È indispensabile ragionare di alleanze con la nuova economia dei social network, non ignorarla o resistere.
L’uso pervasivo della scienza dei dati, consentito da costi informatici in discesa vertiginosa, è altrettanto importante nel business e alla portata solo delle nuove generazioni che ne comprendono il valore potenziale nelle decisioni, nei processi, nella velocità di risposta. Scrivo nuove generazioni non a caso: l’Italia è un Paese dominato da una gerontocrazia che da troppo tempo non lascia spazio ai giovani e si sta condannando da solo. Gli imprenditori medi e piccoli non fanno eccezione, anzi.
Serve un passaporto linguistico, perché non è più possibile comportarsi come fecero negli anni ’60 i volonterosi albergatori riminesi che parlavano il dialetto e le parole straniere sufficienti ad accogliere i tedeschi. Gli italiani studiano male le lingue, parlano male le lingue, negoziano male all’estero non sapendo governare le sfumature del vocabolario degli affari. La proverbiale simpatia e flessibilità italiana non basta in Cina, a Singapore, negli Emirati. Avere un business internazionale, senza confini sarà per moltissime imprese la regola, non l’eccezione.
Lascio per ultima la finanza, perché è la disciplina economica che tanti guasti ha provocato nel mondo e alle imprese e non merita il primo posto. Tuttavia è evidente dai rottami sparsi in questi anni di crisi che la classe dei nuovi imprenditori non potrà commettere gli stessi errori, non potrà contare sul sistema bancario sonnolento e accondiscendente degli ultimi 60 anni, non potrà indebitarsi sempre e comunque oltre i limiti della gravità. Il gap culturale dei piccoli imprenditori in questo campo è ancora notevole, l’allergia alla logica dei numeri e dei flussi di cassa è ingiustificabile perché mette tutto a rischio, soprattutto i dipendenti che pagano sulla propria pelle crisi evitabilissime. Non deve più succedere che le imprese trascurino l’importanza della finanza come mezzo produttivo, della liquidità come fattore di sopravvivenza e sbaglino la struttura finanziaria. La cultura finanziaria deve salire molto tra chi fa impresa.
L’Italia delle imprese, nonostante tutto, ha un potenziale di rimbalzo in avanti che potrà cogliere solo prendendo atto delle proprie debolezze e mediocri abitudini per cambiare e sorprendere chi nel mondo ci attribuisce stereotipi talvolta meritati. Valga l’esempio di Expo 2015 per capire che non è lo stellone che ci sospinge nel mondo, ma sono grinta e organizzazione di squadra.