Ad aprile cala la fiducia dei consumatori, passando da 110,7 a 108,2, e delle imprese, da 103 a 102,1. E’ quanto emerge dai dati Istat, secondo cui a peggiorare sono tutti gli indici relativi al clima di fiducia dei consumatori (economico, personale, corrente e futuro), mentre migliorano i giudizi sulla dinamica dei prezzi e le attese per i prossimi 12 mesi. Il dato sulle imprese riflette invece una situazione abbastanza complessa: da un lato migliorano il settore manifatturiero e il commercio al dettaglio, dall’altra peggiorano le costruzioni e i servizi di mercato. Ne abbiamo parlato con Gustavo Piga, professore di Economia politica all’Università Tor Vergata di Roma.



La fiducia in calo è segno del fatto che il Quantitative easing della Bce non sta producendo effetti?

Dopo l’annuncio del Quantitative easing da parte di Draghi, Padoan non ha aggiornato le sue stime sulla crescita italiane. Le ha invece lasciate invariate allo 0,6%, la stessa previsione che aveva fatto nel novembre 2014 quando non sapeva che ci sarebbe stato il Quantitative easing. In realtà, però, Padoan aveva delle stime di gran lunga peggiori. Quindi sicuramente l’intervento della Bce ha avuto un impatto, ma nel senso che ha impedito che le cose precipitassero. Non è però quello che vogliamo sentire dalla politica economica, in quanto occorre raddrizzare l’attuale situazione e non limitarsi a non farla precipitare.



Di che cosa ci sarebbe bisogno?

Ciò che occorre è una domanda interna creata dal settore pubblico, anche perché i tassi sono a zero e non ci sono investimenti da parte delle imprese. Come ha sottolineato un rapporto del Centro studi di Confindustria, una politica monetaria aggressiva senza una politica fiscale che con altrettanta decisione vada verso la fine dell’austerity non porta da nessuna parte.

Perché gli Usa sono in crescita mentre l’Italia è ferma?

Il motivo per cui, a differenza dell’Italia, gli Stati Uniti sono usciti dalla palude è legato al fatto che negli anni chiave Washington ha spinto con grande forza sugli investimenti pubblici, che sono aumentati del 24% in sette anni. Nello stesso periodo nell’area euro sono aumentati del 2% e in alcuni Paesi come l’Italia sono crollati.



Quindi la leva monetaria non basta?

Insieme alla politica monetaria occorrono investimenti pubblici, come fece Roosevelt negli anni ’30. Finché i Def si muovono nella direzione di politiche restrittive, è naturale aspettarci reazioni ambigue da parte degli operatori di mercato.

I dati sulla fiducia delle imprese però hanno anche degli aspetti positivi, come il miglioramento nel settore manifatturiero…

Il vero fattore che emerge è che l’Italia è divisa in due. In particolare è divisa in due tra Nord e Sud, ma anche tra imprese medio-grandi internazionalizzate e aziende che devono ancora crescere. Il cambio deprezzato dovuto alle politiche monetarie di Draghi aiuta alcune imprese manifatturiere dinamiche che si trovano al Nord. Il quadro finale è una media di queste due Italie.

 

Il motore della ripresa però resta sempre al Nord…

Le rispondo con un esempio. Confindustria Veneto ha di recente espresso ottimismo sulla ripresa, con l’unico fattore di preoccupazione che riguarda il Sud. Gli imprenditori si rendono giustamente conto che se il Paese non si risolleva nel suo complesso, anche le parti più vitali e dinamiche rischiano di affondare. Il Nord è il primo a pretendere uno sviluppo del Sud, tant’è che la stessa Confindustria chiede maggiori investimenti pubblici. Finché questo non avverrà, i numeri continueranno a oscillare e l’Italia non riuscirà a risalire nemmeno ai livelli di produzione pre-crisi.

 

Questi dati esprimono anche una delusione delle imprese nei confronti delle politiche del governo?

Gli imprenditori sono consci del fatto che è facile parlare, ma è difficile fare politica. Certamente però a mancare è l’anello di congiunzione per fare ripartire il Paese, e le responsabilità se le prende chi ha in mano le leve del comando. Ormai è passato più di un anno, e ci chiediamo tutti in quale situazione si troverebbe il governo Renzi senza la manovra di politica monetaria di Draghi. La performance di Renzi è all’altezza dei precedenti governi all’insegna dell’austerità che hanno generato disoccupazione.

 

Renzi si dovrebbe preoccupare della fiducia di consumatori e imprese almeno quanto della fiducia sull’Italicum?

Lo slogan di Clinton era “The economy, stupid”, per indicare il fatto che se l’economia non migliora alla fine non si prendono i voti degli elettori. Anziché cambiare le regole del gioco, il presidente del consiglio dovrebbe preoccuparsi di vincere la partita.

 

(Pietro Vernizzi)