La campagna elettorale per il rinnovo del vertice di Confindustria è cominciata con largo anticipo (e con qualche malignità di troppo verso il presidente uscente Giorgio Squinzi: quanti suoi predecessori – ad esempio – avrebbero rispettato un impegno pubblico con il ministro delle Infrastrutture in carica già pressato dal premier a dimissioni “d’opportunità”?). Ma – Comune di Milano docet – la lunga transizione italiana si sta concretizzando in campagne elettorali “aperte”, più laboratori costituenti che corse tradizionali per in incarico. E se lo stesso Pd del premier Renzi oscilla continuamente fra quotidiano rischio-scissione e ministerialismi al 2018, la Cgil – la più importante controparte storica di Confindustria – è sempre più lacerata fra un sindacalismo burocratico e di retroguardia (sostanzialmente a tutela para-statale di non-più-lavoratori) e il superattivismo avanguardistico rifondativo di Landini
A rischio di paradosso, fra i meriti della presidenza Squinzi vi è quello di aver lasciato irrisolti i nodi interni in viale dell’Astronomia, sempre più numerosi e avviluppati. Suo il merito – non il presunto demerito – di aver difeso la confederazione che gli è stata affidata contro dinamiche sempre più violente in tutte le direzioni. Suo anche il merito di non aver coperto fino in fondo una crisi di leadership e di ruolo che non è certamente del patron di Mapei, ma che – come ha sottolineato pochi giorni fa Giuseppe De Rita – interessa certamente una fetta importante delle classi dirigenti presenti in Confindustria.
Squinzi (che non avrà bisogno, nel 2016, di una presidenza all’ex Alitalia come Luca di Montezemolo o all’Eni come Emma Marcegaglia, ma solo di tornare alla sua Mapei) ha guidato l’intero convoglio confindustriale anche quando è stato chiaro a lui per primo che la “sua” Federchimica ha un peso e una velocità strutturalmente diverse rispetto ad altre federazioni di categoria (basta guardare i contenuti innovativi del contratto dei chimici). Sotto la “cupola” confindustriale opera – un esempio fra tutti – una federazione come il Legno-Arredo, incubatore di un Salone del Mobile che resta forse più importante dello stesso Expo per l’Azienda Italia: ma quante altre federazioni esprimono in quanto tali stessa carica imprenditoriale? E qual è – nel 2015 – il livello di omogeneità e coesione dell’Italia confindustriale nel reticolo delle sue associazioni territoriali? Quali sono gli standard di rappresentanza e di servizi offerti lunga le filiere e le “catene del valore” del sistema-Confindustria? Qual è il valore aggiunto realmente prodotto dalla burocrazia centrale di viale dell’Astronomia? Quali sono l’efficienza e l’efficacia reali della governance confindustriale e il peso dei “professionisti di Confindustria” dediti a un puro lobbismo individuale?
Ma la spinta rottamatoria indirizzata da Renzi soprattutto contro i corpi intermedi” ha messo in evidenza altri limiti di una sorta di “gigantismo confindustriale” perseguito dai predecessori di Squinzi. Aveva davvero senso aggregare in viale dell’Astronomia Eni, Enel, Ferrovie, Poste, grandi utilities ex municipali solo perché quotate in Borsa? Da un lato restano aziende pubbliche (e il governo non mancherà di far leva in Confindustria) attraverso il Tesoro; dall’altro i fornitori di energia e di altri grandi servizi rimangono controparti delle imprese iscritte a Confindustria: esattamente come le banche, associate quasi in blocco nell’ultimo decennio soprattutto a livello locale (primo fra tutti il caso dell’Unione industriali di Roma), salvo poi vedere il “credit crunch” aprire solchi profondissimi fra i due mondi. Non ultimi, vi sono i capitoli – tutt’altro che scorrevoli – della Confindustria imprenditrice in proprio, editrice de Il Sole 24 Ore e proprietaria della Luiss.
Come per il futuro sindaco di Milano, far partire dai cognomi la lunga campagna per il successore di Squinzi può significare non capire il senso di un momento e di una svolta.