Il Quantitative easing europeo si accinge a compiere i suoi primi cento giorni. E, quasi a celebrare la ricorrenza, arriva una lieta novella: i prezzi al consumo hanno smesso di scendere. Non è il solo aspetto positivo: le misure di politica monetaria adottate dal consiglio della Bce assieme al basso livello dei corsi petroliferi e al deprezzamento dell’euro hanno permesso al Vecchio Continente di mettere a segno nel primo trimestre una crescita a un tasso annualizzato del 2,5%, ben superiore allo striminzito 0,2% denunciato a sorpresa dagli Usa. 



Per contro, non mancano i segnali negativi. La disoccupazione resta elevata e, come ammonisce il Bollettino mensile della Banca centrale europea, il grado di capacità produttiva inutilizzata del sistema industriale dovrebbe diminuire solo gradualmente. Non meno inquietanti i segnali in arrivo dai mercati finanziari: i rendimenti dei titoli del Tesoro, a partire dai Bund tedeschi, tornano a crescere, le Borse scricchiolano. E si fa strada il sospetto che la stagione dell’euro e del petrolio debole sia ormai agli sgoccioli. Con effetti sinistri sulle speranze di ripresa. 



Si può continuare, in questa cornice, a vedere il bicchiere mezzo pieno? Oppure, distratta dalla tenzone sull’Italicum, la politica di casa nostra sta per perdere la grande occasione? Proviamo a fornire qualche numero che può servire a dare una risposta.

1) L’occupazione resta il tallone d’Achille italiano in una situazione, quella europea, a sua volta in forte sofferenza rispetto all’economia del Nord America. A marzo il tasso di disoccupazione del Bel Paese è salito al 13% dal 12,7% di febbraio per un totale di 3 milioni 302mila unità. In Europa la percentuale è più bassa: l’11,3% a marzo, in linea con il dato del mese precedente. Per ora la previsione del Bollettino (“I mercati del lavoro nell’Eurozona, seppur ancora deboli, mostrano segnali di miglioramento”) suona più come un augurio che una prospettiva concreta. Almeno per l’Italia alle prese con un tasso di disoccupazione giovanile a marzo salito al 43,1% dal 42,8% di febbraio: 8 mila giovani in più in un mese, la stessa cifra dei neo occupati tedeschi a marzo.



2) È il Jobs Act che non funziona? In realtà, le nuove leggi sul mercato del lavoro c’entrano poco o nulla perché l’occupazione, almeno quella sana, non avanza a suon di leggi. Al contrario l’occupazione segue con ritardo l’andamento dell’attività economica. Se questa prende a crescere, sono le ore di lavoro di coloro che sono già in azienda a incrementarsi per prime attraverso la riduzione di cassintegrati e part-time. L’aumento del numero di occupati è destinato a verificarsi, con ritardo, solo se la produzione si riprende in misura adeguata da giustificare nuove assunzioni. È la crescita della domanda che può portare alla crescita dell’occupazione, mentre i cambiamenti delle regole e gli incentivi sui contributi possono favorire la qualità dei contratti di lavoro, ma possono poco se non c’è un’analoga espansione della domanda.

3) Da questo punto di vista la congiuntura presenta qualche preoccupazione. In realtà, come nota Alessandro Fugnoli di Kairos, “la coperta della crescita globale, che già non era abbondante, è andata accorciandosi negli ultimi mesi. Oltre all’America, anche la Cina sta rallentando vistosamente, mentre alcuni importanti Paesi emergenti, come Russia e Brasile, sono entrati in recessione”. Non è una bella notizia per l’Europa, tantomeno per l’Italia, che tanto affidamento fa sulla domanda estera come propellente per la ripresa. La Banca d’Italia, in un recente studio sull’impatto del Qe sulla nostra economia, ha calcolato che, grazie all’impatto dell’euro debole, le esportazioni dovrebbero salire del 4% nel biennio. Di questo aumento dovrebbero beneficiare gli investimenti per oltre 2 punti. 

4) Per questo i mercati azionari europei guardano con grande preoccupazione alla ripresa della moneta unica e alla discesa del dollaro. Il fenomeno, poi, preoccupa tanto di più quanto si accompagna a un rimbalzo robusto del mercato obbligazionario europeo, fenomeno pur comprensibile dopo la discesa dei rendimenti dei titoli tedeschi sotto zero. In questi mesi l’America ha accettato prima uno yen debole e poi un euro debole quando ha capito che la situazione di Giappone ed Europa stava diventando insostenibile. Il prezzo pagato dall’America è la rinuncia all’accelerazione della crescita verso il 3%. Ma ora, una volta scivolati gli Usa verso la crescita zero, si deve cambiar copione: per almeno un paio di trimestri il dollaro, sotto la regia delle banche centrali, dovrebbe galleggiare attorno quotazioni più basse, attorno a 1,15-1,20 contro l’euro. Mentre i capitali dei fondi che in queste settimane hanno favorito il boom dei Bund, incassano i benefici della grande corsa in attesa di nuovi investimenti. Per usare la metafora precedente, “la coperta, strattonata bruscamente verso il lato europeo, viene ora dolcemente e prudentemente riportata in parte (piccola, crediamo) verso il lato americano”. Insomma, dopo i primi cento giorni, il Qe continuerà a produrre i suoi effetti. Ma la stagione dei regali (o dei miracoli) è finita. 

5) Il bilancio dei primi cento giorni del Qe è senz’altro positivo: il ritorno dell’inflazione a quota zero rispetto a un anno fa segnala che l’Europa è avviata a vincere la guerra contro la deflazione. L’Italia, in particolare, può sperare sia nell’aiuto dell’inflazione per ridurre l’impatto del debito che nella ripresa dei consumi delle famiglie. Ma la sfida sarà lunga e contrastata se l’economia globale non ritroverà la strada per uscire dalla “stagnazione secolare” paventata da Lawrence Summers: denaro a basso costo, crescita ai minimi provocata dall’assenza di domanda. Una malattia finanziaria i cui sintomi si avvertono un po’ ovunque, dalla Cina alla frenata dei Paesi emergenti. Può darsi che la diagnosi sia sbagliata, come sostiene l’ex Presidente della Fed Ben Bernanke che ammonisce a non sopravvalutare fenomeni di durata e intensità assai minore. Ma, per ora, non resta che prender atto che le potenzialità di crescita del pianeta sono assai più ridotte di qualche anno fa. Nonostante i Qe varati in po’ dappertutto: non illudiamoci, perciò, che l’Italia possa attendersi chissà quali regali da fuori.