«Esultare perché la crescita del Pil italiano è stata pari allo 0,3% come in Germania non ha senso, in quanto il nostro Paese viene da un periodo di recessione mentre Berlino è già da tempo in ripresa». Lo afferma il professor Francesco Forte, ex ministro delle Finanze e per il Coordinamento delle politiche comunitarie. Per Forte, «il vero confronto va fatto con il +0,9% della Spagna e il +0,6% della Francia, due Paesi che hanno deciso di avviare importanti riforme».



Professore, per l’Istat il Pil italiano segna finalmente il +0,3%…

Il dato italiano va considerato in relazione al periodo precedente, che era caratterizzato dalla depressione. Il risultato in sostanza è una crescita acquisita nel primo trimestre dello 0,2%, che porta su base annua al +0,8%. Il primo trimestre 2015 è quindi favorevole in relazione a un periodo di recessione, ma il trimestre successivo per avere un ulteriore 0,2% deve ovviamente crescere di più.



Gutgeld ha rilevato che l’Italia cresce come la Germania. Ha ragione a cantare vittoria?

Il +0,3% della Germania va considerato in paragone a un precedente periodo di crescita marcata. Dopo un periodo di crescita moderata, un +0,3% rappresenta una crescita sostenuta. È come una persona che sale per una strada di montagna. Se questa persona aveva già fatto qualche scalino, tre scalini in più rappresentano un ulteriore innalzamento. Se invece poco prima era scesa, i tre scalini in più rappresentano solo un recupero.

E quindi?

Il vero confronto non va fatto tra l’Italia e la Germania, bensì tra il nostro Paese da un lato e Spagna e Francia dall’altro. Madrid cresce dello 0,9% e Parigi dello 0,6%. Rispetto agli altri paesi che dovevano fare o che hanno fatto le riforme, l’Italia è dunque il fanalino di coda e ciò nasce da un ritardo nel fare le riforme. A questo risultato non felice dell’Italia contribuisce il fatto che il governo non ha attuato nessuna delle azioni che dovevano servire per approfittare del Quantitative easing di Draghi.



Quanto vale da questo punto di vista il Jobs Act?

Ciò di cui c’era bisogno non è il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, che serve solo per “stabilizzare” contratti a tempo determinato. Compiendo questo travaso noi non abbiamo accresciuto la flessibilità del mercato del lavoro, in quanto ciò di cui c’era bisogno non era la possibilità di licenziare nei primi tre anni, quanto piuttosto contratti di lavoro flessibili e orientati alla produttività. Il mercato italiano del lavoro non è stato quindi minimamente riformato.

 

Tra le sei raccomandazioni dell’Ue all’Italia c’è anche quella di ridurre il carico fiscale sul lavoro per spostarlo sulle proprietà. Lei che cosa ne pensa?

Gli immobili sono già stati tassati in un modo persino ossessivo, con effetti deleteri sull’economia. Sono aumentate le imposte sugli immobili, ma non si sono ridotte quelle sul lavoro. Anziché limitarsi agli 80 euro in busta paga, bisognava fare l’esatto contrario, cioè ridurre le aliquote marginali. Per ridurre le imposte sul lavoro bisognerebbe disporre di grandi somme. Ma d’altra parte è difficile introdurre delle tasse sulla proprietà.

 

Perché?

Perché quello della Commissione Ue è un discorso astratto e anche un po’ sciocco. I ricchi con le loro proprietà stanno all’estero, spesso in Paesi Ue e in forme del tutto legittime. Se in Italia abbiamo delle aliquote sulle proprietà che sono più alte e in altri paesi Ue sono più basse, è evidente che i ricchi le trasferiranno sempre di più all’estero.

 

(Pietro Vernizzi)