Confindustria è da sempre bersaglio esemplare del premier Matteo Renzi, rottamatore programmatico di ogni “corpo intermedio”: come i sindacati, i residui partitici, banche e fondazioni, i media tradizionali, in fondo anche la Chiesa e parecchio altro. Tuttavia proprio dalla confederazione degli industriali è giunto negli ultimi giorni un segnale inatteso: che sembra contraddire quel “teorema Renzi”, secondo cui solo il suo governo – sedicente “costituente” della Terza Repubblica – detiene una reale capacità riformista, alla guida di un Paese di italiani “nuovi” ancorché indefiniti. Qualsiasi altro soggetto pubblico definito da Prima e Seconda Repubblica avrebbe invece esaurito per definizione ogni spinta, ogni propulsione: anzitutto interna al proprio “corpo”.



Giorgio Squinzi ha invece iniziato il suo ultimo anno di presidenza in Confindustria dando concretezza a una riforma strutturale, “pesante”. Il ridisegno statutario e organizzativo messo a punto dalla commissione guidata da Carlo Pesenti è il terzo in 105 anni di vita della confederazione: è stato varato nel 2014 grazie all’impegno decisivo di Squinzi e nei giorni scorsi ha conosciuto la sua prima applicazione. E ha mostrato un cambiamento subito all’opera, su un percorso aperto, non rigido o predeterminato.



L’occasione è stata l’elezione di 20 membri su 178 nel nuovo consiglio generale: il “parlamentino” di Confindustria cui è stato ridato un ruolo forte di elettore diretto del presidente e della sua squadra (dall’anno prossimo). L’elezione diretta di 20 consiglieri (aggiuntivi rispetto a quelli designati dalle associazioni territoriali e dalle federazioni di categoria) ha riscosso un affluenza superiore al 95% , non preventivata a margine dell’assemblea annuale privata della confederazione. Anche l’esito non era pronosticato: numerosi candidati delle associazioni territoriali maggiori (Assolombarda, Unioni di Roma e di Torino) non sono risultati eletti. L’alta affluenza ha consentito ad altre realtà associative aderenti di inviare nel nuovo consiglio generale una decina di futuri “grandi elettori” del successore di Squinzi. Come ha notato Dario Di Vico sul Corriere della Sera, la vecchia logica top down, di sostanziale imposizione del vertice da parte dei “poteri costituiti” di Confindustria (singole associazioni o addirittura singoli gruppi) sembra essere in forte discussione: forse superata dal primo test concreto della riforma Pesenti.



Non è un fatto da poco. Confindustria non è considerata a forte rischio obsolescenza solo dal premier rottamatore: perfino alcune componenti associative interne – alcune di nome e in buona salute – s’interrogano da tempo sul futuro di Viale dell’Astronomia. Si chiedono quale missione possa ancora svolgere – in modo efficace ed efficiente – una centrale imprenditoriale unica estesa su mondi sempre più diversi. Colossi pubblici di ingresso recente (Eni, Enel, Poste, Fs), ad alta capacità di contribuzione ma a voto limitato.

Antichi “padri fondatori” dell’industrialismo italiano dal blasone più o meno appannato o talvolta espatriato. Imprenditori del “quarto capitalismo” affrancatasi da ogni complesso o da ogni pregiudizio: ad esempio sull’essere “governativi” per vocazione o, viceversa, sull’obbligo di fare “concertazione” con i sindacati. Banche intrufolatesi in qualche fase periodica di insidiosa “solidarietà nazionale” fra imprese che sul mercato sono controparti (idem per tutte le utilites fornitrici di energia). Un Nord attratto dai nuovi “paradisi per produttori” in Svizzera o Austria; un Sud in cui anche gli industriali fanno talvolta (cattiva) notizia.

Squinzi non ha voluto né cementare tutto questo in un unico blocco “quantitativo” (macro-lobbystico) la Confindustria che ha trovato; né ha ceduto alla tentazione di riselezionare in via qualitativa una Confindustria in un club di campioni manifatturieri del Made in Italy, privati a controllo familiare. Se si fosse mosso in questa direzione, Squinzi non sarebbe stato facilmente contestabile: difficile farlo con un presidente che, più di tanti predecessori lontani o vicini, ha portato al vertice di Confindustria un esempio personale di imprenditore italiano eccellente. Squinzi, da vero industriale privato, ha invece voluto lasciar lavorare il mercato. Il futuro di Confindustria – al limite anche la sua sopravvivenza – lo decidono gli associati, qui e ora, senza schemi precostituiti.

L’importante è stato liberare in Confindustria tutte le energie di solido “corpo intermedio”: la voglia di partecipare, di concorrere, di cambiare. Alla prima risposta, è chiaro che Squinzi ha avuto ragione: anche quando ha avuto tutti contro (anche quando – ha scritto il Corriere della Sera – avrebbe avuto “ragioni personali” per ritirarsi prima di aver portato a termine il suo mandato). E’ Renzi – azionista dei colossi pubblici e forse scalpitante anche di collocare in Confindustria un presidente “amico” – che deve ancora dimostrare di saper varare una riforma costituzionale realmente capace di riattirare tutti gli italiani a bordo della politica e della democrazia istituzionale: come ha fatto Squinzi.

In Confindustria, intanto, il bello sembra essere all’inizio. E potrebbe svilupparsi in maniera ancora inattesa. Ad esempio: non è escluso che Il Sole 24 Ore, storico giornale controllato da Viale dell’Astronomia, possa studiare un aumento di capitale, dopo anni di sofferenza di bilancio comuni all’intera editoria italiana. Finora la governance di Confindustria è stata vista come un ostacolo: ma gli ultimi sviluppi aprono scenari nuovi. Difficile che, di fronte alla possibile richiesta di nuovi capitali dall'”azionista di maggioranza” non vi siano associazioni o federazioni disposte a investire sul “loro” giornale. Altre, quasi sicuramente, non potranno o non vorranno farlo. Ma la nuova “democrazia funzionante” di Confindustria sbloccherebbe comunque l’impasse strategica del gruppo editoriale partecipato.