La ripresa italiana è destinata a durare? Se lo chiede il Financial Times, elencando alcuni segnali positivi in arrivo dal Bel Paese. Non ultimo, la crescita del Prodotto interno lordo nel primo trimestre. Solo lo 0,3%, si sa, che comunque segna un’inversione di tendenza rispetto all’andamento degli ultimi quattro anni. A confortare l’ottimismo, poi, contribuisce il fatto che la ripresa dipende più dal rilancio dell’attività manifatturiera, a partire dall’auto, uscita dal tunnel della crisi, e da altri settori, spesso trascurati. L’industria italiana della salute, ad esempio: pharma, biomedicale e biotecnologie, rappresentano un piccolo miracolo italiano. Certo, sul fronte dell’occupazione o progressi non si vedono quasi. Ma la crisi che ci siamo lasciati (forse) alle spalle è stata così violenta che ci vorrà molto tempo per lenire le ferite: sarà necessario assorbire la cassa integrazione, così come una parte degli irregolari che non emergono dalle statistiche e tanto altro ancora. 



Prima di progettare il futuro, dunque, è necessario rimediare ai danni di un passato che dura ancora. Anche perché, a differenza di altri paesi europei, le riforme stentano ancor oggi a decollare. Ma la strada, anche agli occhi degli osservatori internazionali, sembra tracciata. 

Tutto bene? Forse. Ma non si può dimenticare che il rilancio del Bel Paese è stato favorito da un complesso di fattori positivi che si stanno esaurendo: l’euro debole che ha favorito l’export; il decollo del Quantitative Easing, che ha abbassato considerevolmente i tassi; il petrolio in calo che ha favorito, tra l’altro, la ripresa dei consumi. Uno scenario positivo che, ahimè, sembra destinato a finire presto. Forse troppo presto per non strozzare una tendenza appena avviata. 



I segnali non sono drammatici, ma meritano attenzione. Risale il petrolio, il dollaro ha imboccato la strada della discesa. I grandi gestori, annusata aria di bolla finanziaria (annunciata da Janet Yellen ma anche da Giuseppe Vegas, presidente della Consob), stanno smontando le operazioni allestite per sfruttare gli acquisti del Quantitative easing. A gennaio gli hedge si sono indebitati in euro sfruttando i tassi vicino allo zero per investire in azioni europee. Oggi, al contrario, saldano i debiti comprando euro (di qui il rialzo della moneta unica) e fanno le valigie. 

All’origine c’è grande subbuglio sul fronte dei tassi. Dopo la rapidissima e bizzarra discesa dei rendimenti dei titoli di Stato tedeschi, innescata dal Quantitative easing, c’è stata un’ancora più rapida inversione di rotta: i Bund decennali tedeschi, scesi fino allo 0,05% a metà aprile, oggi rendono oltre lo 0,7%, ai massimi da dicembre. La tendenza ha investito, come previsto, anche i Btp italiani, passati da un minimo sotto l’1% all’1,90% abbondante. 



Non sono numeri drammatici, soprattutto per un Paese che ha dovuto fronteggiare uno spread di 500 punti base rispetto alla Germania contro l’attuale 117. Ma di questo passo si dovranno rifare i conti della finanza pubblica: la tendenza al ribasso si è interrotta. La turbolenza del mercato del debito non si è fermata all’Europa. Anche i tassi dei bond Usa hanno avviato un robusto movimento in ascesa, dall’1,80 al 2,25%. Dopo aver preso atto che la Fed ha accantonato per ora il progetto di aumento del tasso di sconto, il mercato si è mosso in anticipo. E le banche centrali, altra novità, stanno a guardare. 

Perché? Di sicuro la ragione non sta nella ripresa che, al contrario, perde colpi in Usa e in Cina. “I tassi – segnala Alessandro Fugnoli di Kairos – non si alzano per frenare la crescita (nemmeno i falchi radicali odiano la crescita), ma per prevenire l’inflazione prossima ventura”. E sia in Usa che in Germania, vicine alla piena occupazione, si profila uno scenario di ripresa dell’inflazione. L’Europa nel suo complesso è ancora lontana dalla piena occupazione, anche se non lontanissima come farebbero pensare i dati ufficiali. La Bce stima il ritorno al pieno impiego per la fine del 2017 e questo garantisce tassi ufficiali a zero per altri due anni. La parte lunga della curva e le borse, tuttavia, sconteranno in anticipo il progredire del ciclo economico. 

In sintesi, ci aspetta una fase di rallentamento dei mercati finanziari, causato dal relativo aumento del costo del denaro. Ma la crescita, comunque sotto controllo, non dovrebbe danneggiare l’economia reale se interverranno le riforme già annunciate. Compreso l’assorbimento, anche con la leva fiscale, della montagna di sofferenze che pesa sul credito. 

Diamoci da fare, la stagione dei regali è finita.