Nel corso del 2014 la crescita della produttività a livello globale è stata del 2,1%, in frenata rispetto alla media del 2,6% che si è registrata in media tra il 1990 e il 2006. Un fenomeno inquietante, visto che, secondo un’indagine di McKinsey, per mantenere gli standard di vita raggiunti dall’Occidente e compensare il gap dovuto al calo demografico, sarà necessario di qui al 2050 accrescere la produttività del sistema dell’80%. Senza un sostanziale incremento della produttività, salari e pensioni non potranno difendere nel tempo i livelli attuali. 



È in questa cornice che si possono meglio comprendere i tanti messaggi che, come ogni anno, piovono sull’opinione pubblica a fine maggio: dalla Banca d’Italia alla Confindustria, ma anche da ministri, industriali e, non meno importante, dalla Bce di Mario Draghi, la cui azione ha permesso di disinnescare il circuito vizioso generato dalla crisi che ci attanaglia dal 2008/09 che non è l’unica o prevalente causa della caduta della produttività. Il malessere arriva da lontano, affonda le radici in anni più lontani, all’apparenza di crescita. 



Come nota Marco Annunziata, chief economist di General Electric, le cause del rallentamento europeo risiedono nella rigidità del mercato del lavoro, nella carenza di innovazione e di investimenti in R&S, oltre che in un calo generale dell’assunzione di rischio da parte di imprese.

L’Italia non ha fatto eccezione. Anzi, a leggere la relazione della Banca d’Italia si prende atto che “rispetto al 2007 il calo cumulato degli investimenti è del 30 per cento; in rapporto al prodotto si è progressivamente passati dal 21,6 al 16,9 per cento. Nella media dell’area dell’euro la contrazione complessiva è stata pari a circa il 15 per cento (-7 in Francia), mentre in Germania gli investimenti hanno superato di quasi il 5 per cento il livello precedente la crisi”. Non solo. “L’attività innovativa è in Italia meno intensa che negli altri principali paesi avanzati, soprattutto nel settore privato. L’ultima indagine europea sull’innovazione indica che il ritardo, particolarmente ampio rispetto alla Germania, è accentuato nei settori industriali a più elevato contenuto tecnologico. È molto inferiore, per le imprese italiane, la capacità di svolgere attività di ricerca e sviluppo al loro interno e di collaborare con università e altre istituzioni di alta formazione”. Eppure, dice ancora Ignazio Visco, “il ritorno a una crescita stabile, tale da offrire nuove prospettive di lavoro, richiede uno sforzo di innovazione necessario per adeguarsi alle nuove tecnologie e alla competizione a livello globale”.



Insomma, il gap italiano c’è e si vede. E non sarà facile rimuoverlo. Anche perché il recupero di competitività passa per snodi dolorosi. La tecnologia aumenta la produttività, ma spesso a scapito dell’occupazione, specie nei servizi. Vale per i colletti bianchi ma anche per i tassisti (vedi Uber) e comincia a intaccare certezze che sembravano inossidabili: chi avrebbe detto, solo pochi mesi fa, la crisi degli ipermercati? Non è solo questione di crisi dei consumi, che al contrario mostrano segnali di ripresa nonostante la fiducia stenti a crescere (vedi il calo di maggio rilevato dall’Istat), bensì di modelli di comportamento e di risposta a una concorrenza che non conosce più steccati: il “nemico” più temibile per i supermarket non è più il droghiere all’angolo (che comincia tra l’altro a usare con efficacia l’arma dell’e-commerce) bensì i Big della new economy che, come Amazon, promettono di invadere il terreno delle consegne a domicilio. 

Gli esempi, nella manifattura come nei servizi possono essere infiniti. Ma la ricetta per non soccombere è sempre quella sottolineata dal ministro Pier Carlo Padoan: “Una politica forte per sostenere investimenti e innovazione, spostando le risorse produttive verso le aziende più efficienti, allargare la quota di queste imprese, favorire la crescita dimensionale, dare incentivi a chi innova”. 

Solo parole? Oppure un cambio di paradigma che si è ormai diffuso nel Paese reale prima che in quello ufficiale. “È la carica delle 15-20 mila piccole e medie imprese che stanno esportando, parlano le lingue del mondo, guardano alla manifattura 4.0 – ha sillabato il presidente della Confindustria Giorgio Squinzi -. Sono loro la chiave italiana per svoltare. Saranno loro le nuove multinazionali tascabili che sanno di dover innovare, capitalizzare e crescere sul fronte della formazione del capitale umano”. Terreni su cui, comunque, “molto è stato fatto”.

Basta con la turbo-finanza, esulta Squinzi. È tornata di moda la politica industriale. “Al governo stavolta non voglio chiedere nulla”. E si capisce perché: nessuno insidia, di questi tempi, il primato del produrre. O l’esigenza della flessibilità che, come ha rilevato Mario Draghi citando uno studio Ocse, può contribuire a una crescita del Pil (e del reddito) nell’ordine dell’11% di qui al 2020. 

Per chi ama le etichette, dai messaggi di primavera emergono ricette di “destra”, compresa l’auspicata prevalenza dei contratti aziendali rispetto a contratti nazionali troppo rigidi, o al ruolo rilevante auspicato per i premi legati ai risultati, sulla scia di quanto avvenuto in Fiat Chrysler. Ma le etichette non hanno davvero più senso. Quel che conta è che solo un robusto aumento della produttività può farci difendere i salari e le pensioni conquistate in passato. 

E su questa strada c’è molto, moltissimo da fare. “Ci sono paesi – ha detto Draghi – che in questi anni hanno aumentato le tasse, accresciuto il bilancio pubblico, tagliato gli investimenti: l’esatto opposto di quel che si doveva fare”. Chissà forse pensava (anche) all’Italia. O no?