Finalmente l’Istat ha dato una buona notizia a Matteo Renzi che non ha nascosto negli ultimi tempi il fastidio per l’esito delle rilevazioni dell’istituto di statistica, specie quando hanno contraddetto i segnali trionfali sulla prima risposta al varo del Jobs Act, ancora orfano peraltro dei regolamenti essenziali. Stavolta, invece, il report “Prospettive per l’economia italiana 2015-2017” segnala un incremento della crescita in linea con la stima del governo: il Pil registrerà a fine anno una crescita dello 0,7%, in miglioramento rispetto allo 0,5% stimato dall’istituto nello scorso novembre. L’economia dovrebbe inoltre accelerare la crescita nel 2016 e 2017, rispettivamente dell’1,2%, e dell’1,3%, comunque al di sotto delle stime rilasciate pochi giorni fa dalla Commissione europea. Né si può sperare in un balzo in avanti se gli investimenti, necessari alla ripresa, cresceranno quest’anno solo dell’1,2%
La crescita lenta avrà effetti sull’occupazione. Sul fronte del lavoro, però, il presunto recupero promette di procedere a passi da lumaca: l’Istat vede il tasso dei senza lavoro quest’anno in lieve calo al 12,5%; il tasso dovrebbe scendere ancora l’anno prossimo, portandosi al 12%, per poi toccare l’11,4% nel 2017 quando, si spera, sarà assorbito lo stock dei lavoratori ancora in cassa integrazione. Resta debole la dinamica dei prezzi: il deflatore della spesa per consumi finali delle famiglie si attesterà a +0,2%, mentre il processo inflazionistico riprenderà nel biennio successivo con +1,4% già nel 2016.
Fin qui i numeri che, per quanto aggiornati, sono in parte già superati dai segnali che si stanno moltiplicando sui mercati finanziari anticipatori di nuovi trend. In particolare, proprio mentre l’Istat rilasciava le sue stime, il rendimento del decennale italiano sfiorava sui mercati il livello del 2%, il doppio del record segnato dopo il varo del Qe. Difficile attribuire al problema Grecia la discesa dei corsi e il parallelo aumento dei tassi. Il fenomeno ha preso origine nella roccaforte più tetragona dell’eurozona: il Bund tedesco che in meno di una settimana è passato dallo 0,28% allo 0,75% provocando uno spostamento repentino degli equilibri finanziari: risale l’euro, il petrolio torna a sfiorare i 70 dollari con un incremento di prezzo del 50% rispetto a fine 2014. In sostanza, una parte rilevante dei frutti del Quantitative easing è andata in fumo. I motivi? La Grecia ha una piccola parte di responsabilità. Conta di più, per paradossi, il successo fin qui conseguito da Mario Draghi: il rischio deflazione sembra scongiurato.
Secondo una parte dei money managers, tra cui spiccano nomi come Bill Gross o Warren Buffett, è partito il trend del rialzo progressivo dei tassi: i rendimenti reali rimarranno magari a zero, ma il corso dei bond scenderà, scenderà e poi scenderà ancora. Un bel problema per le economie periferiche dell’area euro, sostenutoe dalla riduzione del costo del denaro, medicina che serve a tener sotto controllo l’evoluzione della malattia, come un bicchier d’acqua fresca per un malato di polmonite, ma non assicura la guarigione, una volta che l’economia reale è entrata in una spirale deflattiva dominata dalla trappola della liquidità.
Secondo Sergio De Nardis, chief economist di Nomisma, “il tasso di interesse reale che assicura nella zona euro la piena occupazione potrebbe essere sceso a un livello di -1,5%. Nei paesi interessati da due lunghe recessioni, come l’Italia, esso potrebbe essere calato anche più in basso. Il gap tra tassi di interesse reali effettivi e quelli che sarebbero necessari per il pieno impiego impedisce il ripristino dell’equilibrio macroeconomico, finendo col perpetuare le tendenze alla stagnazione”.
È assai improbabile, però, che l’Europa possa o voglia adottare una politica iper-espansiva anche perché, come si verifica in questi giorni, il mercato non regge a lungo la bizzarria dei rendimenti negativi. Anzi, nelle more delle decisioni delle banche centrali ha pensato bene di cominciare ad alzarseli da solo. Un bel guaio per l’economia italiana. Come scrive Alessandro Fugnoli, “se la ripresa europea in corso si dovesse tradurre in tassi oltre i livelli attuali e in un euro in ulteriore significativo recupero verrebbero presto meno i benefici del Quantitative easing e si tornerebbe alla condizione di partenza che, lo ricordiamo, non era certo esaltante”. Anche perché tassi più elevati comportano un euro più forte a danno dell’export. Per non dimenticare poi la ripresa del greggio (in dollari), altra mina sulla strada della ripresa.
I mercati, insomma segnalano che il sentiero è più stretto di quanto non appariva pochi mesi fa. L’economia italiana, afflitta com’è da fattori di debolezza strutturale, rischia di pagare un alto prezzo a un eventuale ciclo di riassestamento dell’economia globale, esposta alle incertezze di Wall Street che farà fatica a garantire nel futuro come in passato margini che si sono mantenuti costanti su livelli record. La fase che si sta aprendo, che teoricamente potrebbe anche essere lunga, si profila più complicata, nervosa e volatile. La navigazione per i gestori di portafogli si farà progressivamente più difficile così come sarà assai più arduo convincere gli investitori a far rotta verso l’Italia.
È in questa cornice che s’inquadra la mina della sentenza della Consulta sulle pensioni. La Suprema Corte ha fatto sapere che ora la decisione spetta alla politica che, una volta accertata l’illegittimità costituzionale di una legge (al solito mal scritta da burocrati superpagati e inamovibili), potrà adottare le iniziative necessarie. La posta in gioco, pare, è addirittura di 17 miliardi (il triplo della cifra indicata pochi giorni fa), il che a dice lunga sullo stato della pubblica amministrazione. La sfida politica è ancor più ampia, perché si tratta di scegliere gli interessi da difendere. Sia a Bruxelles che agli occhi delle nuove generazioni, quelle che, mese dopo mese, scoprono dai dati Istat che le iniezioni di ottimismo governativo non generano posti di lavoro.