Tutti i dati economici sfornati i questi giorni mostrano quanta fatica faccia l’Italia a uscire da tre anni di recessione. La produzione industriale a marzo è cresciuta dell’1,5%. Tenendo conto del giorno lavorativo in più, il rialzo sarebbe formalmente di quattro punti e mezzo. Un buon risultato, il migliore dall’agosto 2011. Terrà il passo anche nei prossimi mesi? L’Istat nelle sue sue previsioni per il prossimo biennio sostiene che il Pil italiano crescerà dello 0,7% nel 2015, cioè 0,2 in più rispetto alle stime precedenti. Ma le proiezioni verso il futuro riusciranno a superare la prova dei consuntivi? Nel recente passato non è mai successo, speriamo che cambi. L’occupazione stenta a migliorare e la disoccupazione resta alta; sempre l’Istat ci dice che per tornare al 10% dovremo aspettare addirittura il 2019. E in questo caso speriamo che gli statistici abbiano torto, perché altrimenti avremo un’altra generazione perduta.



Quel che più inquieta in tutta questa danza dei numeri è che la minicrescita italiana è spinta quasi esclusivamente da fattori esogeni riconducibili in ultima istanza alla politica monetaria della Bce. L’impatto macroeoconomico dell’acquisto di titoli viene stimato dalla Banca d’Italia in uno 0,5% di Pil per quest’anno e in uno 0,9% l’anno prossimo. Ciò lascia pochi decimali di punto ai fattori endogeni, anch’essi a loro volta stimolati dalle condizioni monetarie favorevoli. 



Il contributo della politica economica alla crescita è modesto, anzi minimo; sostanzialmente la politica fiscale non è né espansiva, né restrittiva, ma neutrale e il governo pattina sul ghiaccio sottile. Matteo Renzi ha lasciato le redini pressoché completamente nelle mani di Mario Draghi. La Bce stimola la congiuntura e il governo italiano fa le riforme, una divisione del lavoro che sembra una gran furbata, ma cosa succede se le condizioni esterne cambiano? 

Non è una domanda peregrina, né la solita danza dei gufi. Quel che accade da una settimana a questa parte sul mercato dei debiti sovrani lo dimostra. I prezzi dei titoli di stato stanno cadendo, tutti sono in discesa dai Bund tedeschi ai Btp passando per i titoli francesi e spagnoli. Un’ondata di vendite spazza le sale trading ed erode gli effetti positivi del Qe. Il programma di stimolo della Bce aveva spinto i prezzi dei bond a livelli record, adesso gli operatori internazionali preferiscono incassare e liberarsi dei titoli europei. In parte può essere considerata una reazione normale, tecnica come si dice, che spinge a intascare i guadagni, far scendere i prezzi ritenuti gonfiati e ricominciare ad acquistare. Ma è anche possibile che la Bce sia vittima del suo stesso successo. 



Pompare moneta comprando titoli di stato ha fermato la deflazione e fatto risalire l’indice dei prezzi al consumo nel medio termine (cinque anni è il punto di riferimento per la politica monetaria). Dunque è possibile che ci si avvicini al 2% (l’obiettivo della Bce) molto più rapidamente del previsto e ciò fa pensare che il Qe possa cessare ben prima del settembre 2016, il termine (flessibile) che la banca si è data. Anche questo spinge chi manovra ingenti portafogli in titoli a realizzare i guadagni diversificando gli impieghi futuri. 

Non tutti la pensano allo stesso modo. Alcuni sostengono che i tempi di reazione dell’economia europea (soprattutto nell’area euro) sono più lenti di quelli americani, quindi l’acquisto di titoli continuerà. Soprattutto se anche la Bce prenderà come riferimento il tasso di disoccupazione (sia pur indirettamente, perché non fa parte dei suoi compiti, a differenza dalla Fed). Gli Stati Uniti con gli ultimi dati usciti ieri sono al 5,4%, l’area euro si trova ancora a una quota più che doppia. Colpa dei paesi mediterranei perché la Germania è sui livelli americani, ma questo ci riporta alla questione di fondo che ha indotto la Bce alla svolta: colmare il divario tra nord e sud che mina alle radici la moneta unica. 

Dunque, affidarsi soltanto alla politica monetaria, limitandosi a una politica fiscale neutrale, è una scelta meno astuta di quel che sembra: lascia scoperta l’Italia nel momento in cui i mercati spingeranno la Bce a stringere i freni (non dimentichiamo che la Bundesbank ha ingoiato un boccone amaro, ma non ha intenzione di farlo ancora). 

Tutto ciò mentre sono all’opera variabili altrettanto esogene come la Corte Costituzionale sulle pensioni. La sentenza crea un guaio notevole: eseguirla pari pari significa trovare 19 miliardi e far saltare le compatibilità europee; non rispettarla o farlo parzialmente, in modo discriminatorio, provoca una reazione politica molto pesante. 

Anche questo riconduce al problema di fondo: il risanamento non è avvenuto, il bilancio pubblico non è affatto in sicurezza, il deficit continua a viaggiare al limite del 3%, sempre sul punto di sfondare riattivando le solite reazioni acide dell’Ue che diventano veri calci negli stinchi visto che l’economia viaggia ancora a ritmi da zero virgola. 

Non si sfugge insomma, all’impressione di un’estrema precarietà, una politica economica che si regge con gli spilli non può mettere il Paese al riparo dai capricci della sorte.