Non c’è solo la crisi greca. Certo, i riflettori delle diplomazie dell’area euro sono comprensibilmente concentrati sul rischio collasso di Atene e, in misura minore, sul non meno facile confronto sul debito dell’Ucraina. Per una ragione facilmente intuibile: in entrambi i casi l’Occidente, Europa in testa, dovrà allargare i cordoni della Borsa per evitare che due crisi regionali, seppur diverse, minaccino di mettere a rischio la sicurezza, non solo finanziaria, dell’Eurozona, già alle prese con la sfida delle migrazioni epocali in arrivo dal Sud del mondo.
L’ultimo report della Banca Mondiale ci avverte però che gli equilibri dell’economia globale stanno cambiando di nuovo, imponendoci nuove scelte e nuove responsabilità. Dopo sette anni di crescita delle economie emergenti, che hanno contribuito ad alleviare la crisi dell’economia globale, tra i Paesi in via di sviluppo si fa strada la prospettiva di un “rallentamento strutturale” che potrebbe essere di lunga durata. Il compito di guidare la crescita, secondo l’istituto di Washington, torna così nelle mani dei Paesi sviluppati, a partire dagli Stati Uniti.
Dopo sette anni, insomma, cambia lo scenario: nel 2008 la Cina, grazie a una forte accelerazione degli investimenti, accettò di svolgere il ruolo di locomotiva del mondo, con risultati impressionanti ma anche costi elevati: crescita dell’inquinamento ambientale, forte aumento dei debiti dell’economia e dell’apparato amministrativo, tensioni sociali. Oggi tocca di nuovo all’Occidente, che dovrebbe riprender la sua leadership proprio mentre Pechino si accinge a incassare il dividendo dei suoi sforzi: ammissione del renmimbi nel novero delle valute di riserva, promozione dell’Aiib, la banca delle infrastrutture cui partecipano anche i principali Paesi occidentali (con l’eccezione degli Usa).
In cifre la fotografia della crescita si presenta così. Gli Stati Uniti dovrebbero crescere quest’anno del 2,7% contro il 2,6% del Regno Unito. L’Eurozona, al contrario, non andrà oltre l’1,5%. Ma la novità sta nel rallentamento delle economie emergenti, con l’eccezione dell’India, la più effervescente, con un tasso di sviluppo del 7,5%. Rallenta la Cina, che non andrà oltre il 6-6,5%, dato all’apparenza ancora soddisfacente, ma che maschera una robusta frenata dell’export e ancor di più dell’import di commodities.
Il calo del prezzo delle materie prime si traduce, come sempre, in una tegola per il Sud America, che resta un’area fortemente dipendente dall’evoluzione dell’economia di base. Il Brasile, soprattutto, è in piena crisi, con un Pil che si contrae dell’1,4%. La congiuntura negativa accelera la protesta sociale, già esacerbata dagli scandali e dalla corruzione che sta emergendo dal dossier Petrobras. Infine, una sguardo all’Africa sub-sahariana. Dopo anni di boom, rallenta dal 4,5% al 3,5% l’economia della Nigeria, la più importante dell’area.
Da questa sommaria analisi ne discende che:
1) Il tasso di crescita globale dell’economia globale è destinato a rallentare. A meno che la locomotiva Usa non torni a spingere in maniera robusta. Ma le economie sviluppate, dopo sette anni di denaro a costo quasi zero, non sembrano in grado di aumentare in maniera significativa il tasso di crescita, almeno nel medio termine. Pesa un po’ per tutti la forte crescita dell’indebitamento che è stato accumulato nella prima parte del millennio per sostenere le economie, fenomeno che accomuna buona parte del mondo avanzato.
L’Italia, al contrario di quel che si crede, non sta peggio degli altri se si somma al debito pubblico l’esposizione delle imprese e quella dei bilanci familiari. I soldi stanno per ora nelle pieghe dei bilanci delle corporations (oltre mille miliardi di dollari), ma, in assenza di questa crescita reale, non sono destinati a investimenti. A complicare le cose, del resto, sta già contribuendo il calo degli acquisti dall’Asia e dal Sud America che ha costretto la Bce a rivedere al ribasso le stime di crescita dell’export dell’eurozona. Non è il caso di preoccuparsi troppo, a meno che non esploda la crisi greca. Ma prepariamoci a bilanci di metà stagione deboli, tanto che alla fine qualcuno, esagerando, comincerà a parlare di stagnazione.
2) La stagione dell’espansione monetaria è ormai agli sgoccioli. Certo, l’agenzia monetaria registra qua e là nuovi tagli dei tassi, gli ultimi in ordine di tempo in Corea del Sud e Nuova Zelanda. Ma i tassi di mercato sono in rialzo, a partire dalla Germania dove il Bund è più che raddoppiato in meno di due mesi. Gli operatori stanno ormai adeguandosi al giro di boa della Fed che già a settembre potrebbe operare il primo aumento, con l’obiettivo di contrastare l’inflazione (anche quella salariale) che comincia a farsi sentire. La mossa spaventa il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale per le conseguenze che potrà avere sugli Emergenti, per lo più fortemente indebitati in dollari. I segnali già si vedono: per la prima volta dal 2009 gli Emerging Markets accusano un saldo negativo nella crescita degli scambi commerciali. Circa 1.700 miliardi di dollari sono defluiti dai fondi azionari e obbligazionari investiti nelle aree Emerging.
3) In sintesi, stanno venendo meno i tre drivers che hanno segnato l’economia della prima parte del millennio: a) i bassi tassi degli Stati Uniti; b) la crescita dell’economia cinese; c) l’espansione della globalizzazione. Non è il caso di drammatizzare purché Usa ed Europa saranno all’altezza della sfida, politica e culturale ancor prima che economica. Ma sarà una partita complessa. Gli Usa, oggi, pesano per il 25% circa del Pil mondiale. Le economie Emergenti (compresa la Cina) per il 38%, contro il 23% del 1997, l’anno dell’ultima crisi asiatica.