“La festa appena cominciata è già finita”, cantava Sergio Endrigo nel remoto, ma mai sepolto 1968. E se fosse così anche con la ripresa economica? L’allarme arriva da Stefano Micossi, un economista che non ha mai fatto di professione il gufo. La sua analisi parte dal cambiamento rapido e radicale della congiuntura nei paesi in via di sviluppo, cioè proprio quelli che hanno sostenuto il commercio mondiale dopo la Grande Recessione. Ciò lascia soli i paesi industrializzati, costretti a contare sulle loro forze: gli Stati Uniti ancora spingono, ma dopo cinque anni di crescita ininterrotta ci sono segnali che possano tirare i remi in barca; l’Unione europea invece non va da nessuna parte, il suo tasso di crescita è modesto, anzi decisamente deludente. In più pende la spada di Damocle o di Tsipras che dir si voglia. Insomma, “il cielo non è più con noi”, sempre per citare il cantautore genovese.



Se la Grecia fa default ed esce dall’euro, i mercati cominceranno ad azzannare l’Italia e allora altro che 2011. È vero, oggi esistono strumenti di difesa che allora non c’erano, ma non sono mai stati messi alla prova, come ha notato Paul Krugman, quindi nessuno sa davvero se funzioneranno. In più sono sottoposti a vincoli politici, come nel caso del Fondo salva-Stati. E con i tempi che corrono è più facile che chi ha non voglia dare a chi non ha, esattamente come sta accadendo per i migranti e i profughi. 



Allarme rosso, dunque? Non esattamente, diciamo semaforo giallo. Il che deve spingere il governo italiano a prendere le misure e a preparare la prossima legge finanziaria con rigore, ma anche con coraggio. Le alternative sono due: o non fare nulla, mettersi al coperto, sperando che passi la nottata e che il bazooka di Mario Draghi ci eviti il peggio; oppure al contrario forzare la crescita con una politica economica che potrebbe sembrare ardita, ma in realtà prepara quella cintura di grasso essenziale se arriva un’altra fase di vacche magre. 

Decidere l’una o l’altra è anche una questione di stamina, ma soprattutto di calcolo dei tempi giusti; e in economia come in politica il timing è tutto. Se la tempesta è già qui, allora non resta che allacciare le cinture, se invece ci sono alcuni mesi prima che il temporale si scateni, allora è ancora possibile agire. Le analisi della congiuntura a condizioni invariate mostrano che dal lato della domanda aggregata ci sono movimenti migliori di quel che ci si potesse aspettare.



Dopo la Confindustria anche la Confcommercio calcola una crescita nettamente superiore a un punto, se si considera che anche i prezzi stanno risalendo sarà possibile arrivare a fine anno con un prodotto nominale aumentato di due punti percentuali, cioè la quota oltre la quale il debito pubblico comincia a ridursi. Se questo obiettivo venisse centrato già tra l’autunno e l’inverno, prima che l’aumento dello spread diventi di nuovo pericoloso, avremmo calato i respingenti, mettendoci al sicuro dal rischio di finire sugli scogli.

Ma come forzare la crescita senza far saltare le compatibilità finanziarie? La Corte dei Conti nel suo rapporto sulla finanza pubblica 2015 sostiene che è arrivato il momento di ridurre le imposte. Siccome su queste pagine lo sosteniamo da tempo (è diventato un vero tormentone), non possiamo che rallegrarcene. Lo spazio c’é? Secondo la magistratura contabile sì, proprio perché dal 2009 al 2014 tutte le manovre economiche hanno provocato solo aumenti delle entrate (un gettito pari a 55 miliardi), mentre la spesa sociale è cresciuta (+16 miliardi). Tagli consistenti sono avvenuti soprattutto sugli investimenti, gli stipendi, i beni e servizi (21 miliardi). La ripresa dovrebbe portare a una riduzione della spesa per il welfare, offrendo così automaticamente dei margini di manovra che diventano più ampi più accelera la crescita. L’impulso alla congiuntura, infatti, dovrebbe avvenire dal lato delle entrate (riducendo le imposte) e non dal lato delle uscite. 

Il keynesismo fiscale dei magistrati farà rizzare i capelli in testa sia ai liberisti che ai cultori dell’austerità, tuttavia nel caso italiano appare evidente che rappresenta l’unica vera molla per una ripresa non asfittica, in grado di far fronte al contraccolpo che viene dai mercati esteri, quindi dalle esportazioni che finora hanno tenuto a galla il Paese. 

Chi invita a seguire i modelli virtuosi nell’area euro, cioè quelli che hanno aggiustato i conti e spinto nello stesso tempo la crescita (si pensi all’Irlanda), non può non ammettere che la “svalutazione fiscale” ha avuto un ruolo importante tanto e forse ancor più della “svalutazione salariale”. La stessa Germania, già prima della Grande Recessione, ha abbassato le imposte sul lavoro e soprattutto sulle imprese e non le ha aumentate quando è arrivata la crisi. Oggi, anche se i salari sono più alti, l’onere complessivo sulla produzione è inferiore a quello italiano, introducendo un meccanismo di svalutazione competitiva che non passa attraverso il cambio della moneta, ma attraverso i costi. 

Se l’Italia non comincia ad affrontare con serietà questo problema, non uscirà mai dalla palude stagnante. In modo serio vuol dire non concedere con una mano e prendere con l’altra, in altre parole non consentire che le imposte locali esplodano annullando bonus e incentivi. Occorre che la pressione fiscale complessiva sul reddito nazionale si riduca, magari in modo modesto, responsabile, ma costante, vincolando anche i governi successivi. Persino se arrivasse una nuova drammatica crisi sarebbe meglio affrontarla tirando i cordoni della spesa, piuttosto che con nuove stangate fiscali. 

Come la pensa il governo? Finora il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, si è distinto per un saggio pragmatismo, mostrando prudenza ed equilibrio. La politica di bilancio ha accompagnato la politica monetaria della Bce, rispettando i vincoli europei, con una certa flessibilità, e senza mai uscire dal seminato. Di fronte alle nubi che si addensano all’orizzonte e all’impossibilità che l’Italia venga ancora trainata dall’estero arriva il momento di uno scatto di reni.