Un anno fa di questi tempi un amico mi ha chiesto se andavo a parlare di design in un incontro organizzato da una grande multinazionale. All’inizio ero perplessa. Gli ho detto che, in fin dei conti, non ero la persona più adatta a farlo. Io mi occupo di altre cose. Sono affascinata dal design, dalla musica, dalla cultura, dalla scienza. Soprattutto mi piace la comunicazione. Ma poi ha insistito. “Vieni a parlare di quello che fate come azienda. Dei progetti sulla creatività. E poi c’è anche Elio Fiorucci”. In un secondo ho detto di si. La sola idea di stare sullo stesso palco con un personaggio di quella caratura, mi ha entusiasmato. E l’incontro non ha tradito le attese. Una persona normale. Tranquilla, quasi schiva. Nella sala dove i relatori si sono incontrati prima dell’inizio dell’incontro ufficiale, stava seduto sulla sua sedia come fosse uno qualunque e non uno dei creativi che ha dato lustro al nostro Paese in tutto il mondo, rivoluzionando la moda. Segnando un’epoca soprattutto nella mia Milano. Ma non solo. Ognuno di noi si è presentato. Poi ha raccontato il suo percorso, le cose che aveva fatto, il suo contributo alla discussione di quella sera. Poi ha parlato lui. Una voce gentile. Un tono pacato. Aveva portato con sé alcuni esemplari della collezione delle figurine che Panini (25 milioni di bustine per un totale di 105 milioni di pezzi) realizzò per lui.



“E’ interessante – dice Luisa Valeriani nel libretto Elio Fiorucci: quarant’anni di arte, design, moda e spettacolo – il rapporto che Fiorucci ha sempre intrattenuto con la pubblicità, la grafica e in particolare con il logo aziendale. Ad esempio, non ha mai fatto la pubblicità televisiva, ha sempre preferito un marketing virale, magari le figurine Panini (uno dei suoi fiori all’occhiello), in piena coerenza con l’idea di una personalizzazione dell’uso nella democratizzazione della proposta. Per quanto a partire da un certo punto il logo degli angioletti si affermasse come marchio ufficiale, per molto tempo l’immagine aziendale attinse dalla grafica ricontestualizzando ad esempio i disegni di fumetti, tipo Brick Bradford e Dick Tracy: un modo di citare che sembra naturalmente consanguineo all’estetica benjaminiana della citazione”. Nella stanza è calato il silenzio. Un maestro stava parlando. Con la modestia e la pacatezza tipica dei grandi. Di coloro che hanno cambiato il corso delle cose quasi senza accorgersene. Semplicemente facendo un gesto.



Si è messo a raccontare di un giovane italiano, che non parlava inglese, ma che stava negli Stati Uniti e passava le serate con un certo Andy Warhol parlando di arte e creatività, aiutato nel dialogo dal traduttore che portava con sé per riuscire a dialogare in quel mondo così affascinante e così stimolante. Raccontava di come un genio (Warhol), lo mettesse in contatto con un altro genio (Haring). Di come da queste chiacchierate, quasi casuali, nascesse tutto. Di come Keith Haring nel 1984, in un giorno e una notte, trasformasse il suo negozio di Milano in un luogo di culto della graffiti mania di quegli anni. 



Poi con la tipica grandezza di quelli che non si vantano mai di quello che hanno fatto, disse che lui era stato fortunato, in fondo, e che al giorno d’oggi sarebbe molto più difficile diventare Elio Fiorucci perché non sarebbe possibile inserirsi in quel mondo come ha fatto lui tanti anni prima. Il 31 maggio del 1967 (giorno dell’inaugurazione del primo negozio a Milano alla presenza di Adriano Celentano) sembra così lontano. Così come le novità di Carnaby Street e del mondo a stelle e strisce che portò nel nostro Paese.

“Eravamo – ricordava Elio – un fenomeno milanese e italiano. La mia bottega fatturava quattro, cinque miliardi (di lire, ndr). La nostra notorietà era inversamente proporzionale alla forza economica. Siamo diventati un fatto mondiale, sbarcando a Londra e negli Stati Uniti dove il made in Italy era rappresentato solo da Gucci e Ferragamo”. Nel marzo del 2003 lo storico negozio di Galleria Passarella chiuse lasciando il posto alla catena svedese H&M, facendo sembrare a molti che fosse finita un’epoca. L’epoca invece è finita oggi che Elio se n’è andato a 80 anni. Grazie Aldo per avermelo fatto conoscere in una leggera serata di un anno fa. Grazie Elio per aver portato nel mondo un’immagine straordinaria dell’Italia. Buon viaggio.