Benvenuti nell’estate della ripresa. La Federal Reserve, pur con mille cautele, parla di crescita solida dell’occupazione. Salvo colpi di scena improbabili, miss Yellen procederà a un piccolo, graduale aumento dei tassi già a settembre per spegnere sul nascere l’inflazione salariale. Intanto nell’area dell’euro “prosegue il processo di ripresa”, scrive la Bce nel Bollettino mensile, sottolineando come la domanda interna sia rimasta la principale determinante della crescita del prodotto nel primo trimestre. Dopo la ripresa dei consumi si manifestano i sintomi del risveglio degli investimenti, favoriti dai bassi prezzi del petrolio. Merito del Quantitative easing, ma anche “dei progressi compiuti sul fronte del risanamento dei conti pubblici e delle riforme strutturali”.
Benvenuti nell’Italia che cerca di scuotersi dal letargo. Nessun Paese, si legge nel bollettino della Bce, ha sfruttato così male la rivoluzione dell’area euro. Il Bel Paese, che prima dell’adozione della moneta unica figurava nel plotone dei paesi a più alto reddito è scivolato in fondo alla classifica. Dal 2008, anno della crisi di Lehman Brothers in poi, l’Italia è stato il Paese con la crescita più modesta dell’area, con un incremento del 20,6% nel periodo contro il 37,3% della media dell’area a 18. A penalizzare la posizione dell’economia tricolore contribuisce più di tutto il collasso del Mezzogiorno: dal 2008 al 2014 il settore manifatturiero al Sud ha infatti perso il 34,8% del proprio prodotto, contro un calo nazionale del 16,7% e ha più che dimezzato gli investimenti (-59,3%), tanto che nel 2014 la quota del valore aggiunto manifatturiero sul Pil è stata pari al Sud solo all’8%, ben lontano dal 17,9% del Centro-Nord. Dato che fa il paio con la caduta delle esportazioni che in nel Centro-Nord salgono del 3% e al Sud crollano del 4,8%. Un disastro che getta una pesante ipoteca sul futuro: il tasso di natalità nel Mezzogiorno è precipitato ai livelli di 150 anni fa, ai tempi della Terza guerra di indipendenza. In queste condizioni si rischia il disastro demografico e una nuova recessione.
È questa la cornice che permette di apprezzare limiti e potenzialità della Corporate Italia che in questi giorni fornisce i conti del primo semestre del 2015, segnato dall’avvio del Qe. Ci sono segnali congiunturali interessanti, soprattutto per le imprese più proiettate sui mercati internazionali. Ma i risultati s’inquadrano in una situazione che risente delle sofferenze passate e presenti. Nel corso degli ultimi sette anni l’apparato industriale italiano si è ridotto di un quarto abbondante. Per avere un’idea del fenomeno, basti dire che tra il 2007 e 2013 il gap di fatturato accumulato dalle aziende è stato pari a 180 miliardi, una voragine particolarmente pesante per mobili, elettrodomestici, materiali da costruzione, che pur riducendosi nei prossimi anni si attesterà ancora a quota 100 miliardi nel 2019. Il che, per l’Italia, significa aver “perso” per strada per colpa della crisi l’equivalente dell’intero gruppo Fca. Anche la crescita della domanda interna (50 miliardi di qui al 2018) e degli investimenti (39 miliardi) compensa solo in parte quanto perduto.
Insomma, la ripresa parte da sotto zero. E questo può spiegare tattica e strategie del made in Italy come emergono dai conti.
1) C’è un’Italia delle multinazionali più o meno tascabili che ha imparato o sta apprendendo a dipendere sempre meno dal mercato interno: gruppi leader o quasi sui mercati di riferimento, spesso consapevoli che, per non finire preda di multinazionali più grandi, devono agire da cacciatore. È il caso dell’alimentare (vedi le recenti operazioni di Lavazza e Ferrero, “protette” peraltro dalla non appartenenza al listino di Borsa). Dalle trimestrali emerge un quadro vivace in alcuni settori spesso trascurati, tipo il pharma, dove Recordati ha messo a segno un incremento di grande rilievo sul fronte dell’export. Al pari del meccanico (Interpump o De Longhi), mentre il made in Italy del tessile abbigliamento sembra reggere meglio di altri alla frenata degli acquisti cinesi.
2) C’è un’Italia che prende atto che occorre cambiare registro. È “l’effetto P” come Pesenti : un grande gruppo familiare che, dopo una lunga stagione di crescita sui mercati internazionali, prende atto che le dimensioni della sfida sono ormai inaccettabili. Non è questione di gap generazionale o di mancanza di leadership, le cause più comuni della decisione di vendere una “family company”, ma di valutazione razionale del rapporto rischio/opportunità. Troppo alto il rischio di saltare, di fronte agli ostacoli di un mercato che impone dimensioni e investimenti tecnologici possibili solo ai colossi supportati da sistemi finanziari più robusti. Meglio, perciò, vendere al momento giusto, reinvestire parte del ricavato nell’azienda compratrice e mettersi a fare altro, grazie a un robusto cash. Ma, in termini di sistema, l’Italia perde oggi il controllo di un’azienda tra i top del settore cemento. Come è già successo per Indesit e come, probabilmente, presto accadrà ad altri nomi nobili dell’Italia dei salotti che furono (i Moratti?).
3) Al termine dell’estate la bandiera cinese sventolerà sulla Pirelli. Non è escluso che per quella data si completi il processo di trasformazione del gruppo Agnelli. Exor è a un passo dalla conquista della riassicurazione Partner.Re (tra i 6 e i 7 miliardi di investimento) e ben salda alla guida di Ferrari. Ma novità sono in attesa per Fiat Chrysler, dimagrita con l’uscita di Ferrari. Il presunto matrimonio con un Big dell’auto assomiglia sempre di più a una vendita vera e propria, magari attraverso uno scambio di quote con gruppi (Gm, Volkswagen, la stessa Psa) assai più grandi. Una partita delicata anche perché Fiat Chrysler porta in dote un manager del carisma di Sergio Marchionne.
4) Aggiungiamo che l’estate porta con sé il definitivo insediamento di Vivendi, colosso multimediale, in testa all’azionariato di Telecom Italia per concludere che, nel giro di pochi mesi, quello che fu il nucleo duro del capitalismo italiano è finito in mani straniere. Conclusione inevitabile per un Paese che ha un mercato interno in costante frenata, investimenti modesti e una radicata diffidenza contro i gruppi industriali (lo stesso Pesenti ha dovuto fronteggiare una bizzarra contestazione di associazione mafiosa per le attività in Sicilia).
5) Nella Champions League dell’Europa, dunque, abbiamo quasi sempre perso. Per invertire la rotta, cresce la tentazione di far ricorso alla mano pubblica. La promozione di Claudio Costamagna a presidente di Cdp è il segnale tangibile di questo nuovo corso. Ancor più importante, però, sarà attrarre investimenti internazionali nel nostro Paese che potrà ripartire solo se saprà mettere a punto un piccolo piano Marshall. In questa cornice la notizia peggiore è la crisi di Fiumicino, con la ricaduta sui primi conti di Alitalia nell’era Etihad. Di questo passo, la sfida è persa in partenza.