Il Pil dell’Italia cresce ancora, per il ministero dell’Economia e delle Finanze “come da attese”. Resta il fatto che un +0,2% non è un granché. E questa “crescita asfittica” sembra essere comune a tutta l’Eurozona, che nel complesso ha visto il Pil del secondo trimestre salire dello 0,3% rispetto ai primi tre mesi dell’anno. Giorgio Squinzi sembra preoccupato, e il dato dell’Istat “è la conferma che non c’è una ripartenza vera”. Francesco Daveri, professore di Scenari economici all’Università di Parma, sa bene che questa non è la situazione ideale e che ci vorrà del tempo per una ripresa “robusta”.
Professore, il Pil del secondo trimestre è cresciuto, ma dello 0,2%…
Le riprese di oggi non sono più quelle del passato. Le condizioni in cui ci troviamo a crescere oggi fanno sì che le ripartenze siano più graduali, più lente, meno intense rispetto a quelle che sperimentavamo fino agli anni ’90. Credo che dovremo rassegnarci ad avere una ripresa più lenta, ma questo non deve indurci a essere pessimisti, ma ad accelerare sulle riforme che già sono state approvate e che sono l’unica carta che l’Italia ha per riuscire a rilanciare la crescita economica.
A proposito di riforme, c’è l’idea di usarle per ottenere una nuova deroga sui vincoli di bilancio con l’Europa. Aumentare il deficit non rischia di rinviare ancora una seria spending review?
Un intervento più deciso sui conti pubblici e sulla spesa andrà fatto, se non altro perché la dinamica della spesa pubblica è quella di aumentare. Naturalmente, però, ridurre la spesa rischia di frenare l’economia nel breve periodo, quindi si tratta di combinare queste due esigenze. Non dobbiamo dimenticare che non è dalla riduzione del deficit che vedremo scendere il debito pubblico, ma dall’accelerazione della crescita economica. Quindi, c’è bisogno che passi un po’ di tempo perché le riforme producano il loro risultato.
Secondo lei, quanto ci vorrà per vedere una ripresa vera?
Non credo che nei prossimi 5 anni potremo avere una crescita molto più rapida di questa. L’anno prossimo potremo avere un +1,5%. Certo non è la crescita degli scorsi decenni, però può avere già effetti sul mercato del lavoro. Il 2016 potrebbe essere l’anno in cui supereremo lo zero virgola, sperando sempre che persistano le condizioni favorevoli dal punto di vista internazionale, in assenza delle quali le cose diventano più difficili.
Ci vorrà quindi del tempo per avere un aumento del Pil più “robusto”…
Per avere una crescita stabilmente al 2%, secondo me, ci vorranno dai 3 ai 5 anni.
Parlando di ripresa non possiamo dimenticare che, secondo un studio di R&S Mediobanca, alle grandi imprese produrre in Italia non conviene più.
Già da qualche anno le grandi imprese stanno difendendo i loro bilanci diversificando i mercati di sbocco. Che non aumentino l’occupazione e non espandano la loro attività all’interno dei confini nazionali è parte di questa strategia, anche per la dinamica negativa del mercato interno. I dati di questa ricerca non mi hanno comunque stupito più di tanto, perché l’aumento dell’occupazione viene soprattutto dalle piccole e dalle medie imprese.
E quelle grandi?
Se creano occupazione lo fanno fuori dall’Italia. Questo non è naturalmente un segno di salute per la nostra economia. Le nostre grandi imprese sono multinazionali e dobbiamo rassegnarci al fatto che giochino su tanti mercati simultaneamente. La vera domanda è come mai non creino occupazione da noi e lo facciano invece altrove.
Probabilmente perché non c’è una convenienza a espandere la produzione in Italia.
Sì, e ciò dipende da due fattori: la demografia, con l’Italia indicata come un Paese vecchio, combinata con il fatto che da noi ci sono regole salariali che premiano l’anzianità, fa sì che venga scoraggiata la localizzazione delle attività produttive (senza dimenticare che il mercato interno langue); inoltre, ci sono lacci e lacciuoli che si chiamano tasse, burocrazia, lentezza della giustizia civile, ecc., temi su cui il Governo sta lavorando e su cui si dovrebbero però ottenere risultati rapidamente per riuscire a invertire la tendenza.
Il contributo dell’export alla crescita è ancora importante: la svalutazione dello yuan e le conseguenze negative per i Paesi emergenti di un rialzo dei tassi di interesse Usa possono creare dei problemi?
In realtà i Paesi emergenti per le esportazioni italiane non contano molto: la maggior parte dell’export italiano (circa il 70%) va in Europa, paesi non-Ue inclusi. Quindi un rallentamento degli emergenti non colpisce in modo forte la potenzialità delle nostre esportazioni, che sono il “treno” che abbiamo preso in questi anni per avere quel po’ di crescita che registriamo.
(Lorenzo Torrisi)