Chissà se Bernardo Caprotti, morto ieri sera a 91 anni, avrebbe davvero venduto la sua Esselunga, come i media finanziari andavano ripetendo da giorni in una girandola di sigle di mega-fondi globali. Certamente avrebbe respinto con orrore la prospettiva di un intervento — in nome del Made in Italy — di una cordata formata da un fondo della Cassa depositi e prestiti: braccio dello Stato, per di più di un governo amico di quelle coop rosse con cui Caprotti si è scontrato sanguinosamente per mezzo secolo.
E’ vero che Esselunga — corteggiata a lungo dal gigante Usa Wal-Mart e fors’anche da qualche potenza dell’e-commerce — è puro Made in Italy: infinitamente più di Eataly, e al pari dei marchi del fashion (uno degli amici fraterni di Caprotti è stato Giorgio Armani). Il “supermercato” non faceva parte della tradizione del commercio italiano. Gli alimenti si acquistavano in tante piccole botteghe distinte. Nelle città grandi e piccole non esistevano spazi per la grande distribuzione e comunque tutto congiurava contro il successo di una delle tante “americanate” del dopoguerra: di un commercio che anche nell’Itala del boom emanava un odore sgradito di massa, di plastica e scatolette, di file alla cassa, di prezzi bassi sinonimo di qualità bassa.
Ci voleva un italiano che aveva vissuto qualche tempo in Texas per inventare il “supermercato italiano” come modello globale: un posto dove si compra lo champagne con i punti. Un posto dove (nel quasi leggendario punto vendita di Milano-Papiniano) un’offerta integrale di dosi monouso trasformava un supermercato in un luogo d’incontro per “single”. Esselunga, a 59 anni dalla nascita, è ancora imbattuta su un terreno nel quale i giganti francesi hanno pressoché sterminato la concorrenza in Europa, mentre Amazon vorrebbe sfidare la distribuzione tradizionale consegnando il parmigiano o l’uva con i droni sui tetti dei condomini. Forse Jeff Bezos avrebbe bisogno di un Caprotti giovane (l’imprenditore di Pioltello è sempre stato considerato alla stregua di un maestro da un imprenditore poco più giovane della vicina Arcore).
Il resto conto poco: sia la lunga contesa familiare con i figli, sia i miliardi che qualcuno incasserà per la vendita di Esselunga. L’eredità di Caprotti è ben altro.