La Confindustria che Vincenzo Boccia ha ereditato pochi mesi fa è una grana di proporzioni imbarazzanti. Una grana politica, soprattutto, ma potenzialmente anche economica. E ci vorrà tutta la sua migliore volontà – la buona fede non gli manca – per gestirla. Oltre a un bel un po’ di fortuna.

Il maxibuco del Sole 24 Ore – che ha perso 300 milioni di euro in sette anni, con una gestione dissipatoria e vandalica per un’azienda che vende informazione e analisi economica e dovrebbe essere una casa di vetro – è una ferita grave. C’è un aspetto di emergenza che verrà tamponato con l’unico aumento di capitale – tra i 40 e i 60 milioni di euro secondo le banche creditrici – che la Confederazione abbia la forza patrimoniale per finanziare: una sola cartuccia. E c’è l’aspetto strategico, riuscire cioè a utilizzare questi soldi per ristrutturare talmente bene il Sole da impedirgli di perdere altri soldi e permettere a mamma Confindustria di non doverne rifondere ancora: perché se invece dovesse, non saprebbe dove trovarli e sarebbe probabilmente costretta a passere di mano.



Ma l’altra vera sfida per Boccia è il ricompattamento della Confindustria su basi strategiche nuove, a oggi del tutto precarie. Una precarietà che è esplosa impudicamente proprio nelle polemiche sulle responsabilità e le cure del disastro-Sole. Con accenti durissimi, nel Consiglio generale del 12 ottobre che ha portato alla designazione di Giorgio Fossa come nuovo presidente dell’editrice: “Il più cattivo e aggressivo consiglio cui abbia mai assistito”, l’ha definito un decano confindustriale…



Ma, al di là di tanti bei discorsi, il necessario è che la Confindustria curi tempestivamente la ferita-Sole e contemporaneamente ritrovi ragion d’essere agli occhi di tutti i suoi associati. Oggi la Confederazione è un costo rilevante per i circa 140 mila associati: circa 40 milioni di euro di bilancio, finora autofinanziato con i proventi delle “associature” e i dividendi delle partecipate che rendono, com’è ancora l’Università Luiss e come non è più Il Sole. E un patrimonio netto di 290 milioni di euro, con 58 di riserve, che è quanto consente alla Confederazione per farsi finanziare dalle banche e quindi poter finanziare Il Sole.



Ma associarsi costa, un’azienda di 50 dipendenti può sborsare oltre 10 mila euro all’anno, che diventano 50 mila euro per un’impresa di mille dipendenti. E si sussurra che nell’ultimo quinquennio la base associativa si sia ridotta del 10%. L’uscita della Fiat fu clamorosa, nel 2010, per il contenuto polemico che esprimeva: “Non siete buoni ad aiutarci a fare l contratto aziendale che vogliamo, ce ne andiamo via”, disse Marchionne. E altri grandi nomi, da Amplifon a Nero Giardini, Cartiera Pigna e Gallozzi, per citarne alcuni, si sono defilati pur potendo serenamente pagare le loro quote. Perché?

È semplice. Confindustria è, sì, ancora, un “salotto buono” ma è stata sempre, anche, un sindacato: che, esattamente come fa (o dovrebbe fare) la Cgil per i lavoratori, rappresenta e difende i diritti e gli interessi dei suoi iscritti. Lo fa in due direzioni: verso, appunto, i sindacati dei lavoratori; e lo fa verso il governo, perché è al governo che le imprese chiedono – peraltro senza averle mai ottenuti nell’entità e nella tipologia che sarebbero appropriate – sgravi fiscali, agevolazioni burocratiche, sussidi intelligenti.

E qui casca l’asino, direbbe Totò. Cos’è accaduto lentamente ma costantemente, negli ultimi vent’anni, con un’accentuazione drastica del fenomeno dall’uscita della Fiat in qua? È accaduto, semplicemente, che la Confindustria non ha più trovato al suo interno un “opinion leader” schiettamente privato ed ha visto crescere, al contrario, un partito trasversale, quello dei grandi gruppi pubblici associati, che la condiziona, in oggettivo conflitto d’interessi. È il partito di Eni, Enel, Finmeccanica, Poste, Ferrovie che incidono molto se non moltissimo sulle strategie confederali e sono gruppi a controllo statale, i cui vertici sono nominati dal governo, e – a prescindere dalle anche ottime qualità personali di alcuni dei loro vertici, come l’attuale presidente dell’Eni Emma Marcegaglia che è di provata fede privatistica e confindustriale – fanno fatica a sottoscrivere quella linea dialettica, pur nel sostanziale rispetto istituzionale, che gli industriali hanno sempre assunto in passato nei confronti dei governi.

Vi immaginate, oggi, una Confindustria così “parastatale” schierarsi contro Renzi, che nomina i capi dei soci contributori più “pesanti”? Può succedere, certo, in teoria: se tutti fossero nobilmente spinti solo dagli ideali. Ma la realtà è che tutti hanno famiglia. E tra far indispettire chi ha il potere di confermare o revocare un incarico milionario e ammorbidirsi per compiacerlo, la tentazione di posporre gli ideali alla pagnotta è fortissima.

Contro Berlusconi la Confindustria si schierò senza tentennamenti perché perfino i “boiardi” pubblici avevano mangiato la foglia e capito che il Cavaliere del Bunga-Bunga aveva i mesi contati. E quindi lo avevano mollato, pur essendo l’uomo di Arcore socio pesante della stessa Confindustria! Oggi, invece, gli imprenditori, che nell’Italia in crisi di non-crescita dovrebbero sentirsi sulla stessa barca, sono divisi. C’è un governo che si atteggia ad amico ma non ha risorse significative da stanziare per agevolare la ripresa. C’è un “fattore-Paese” sempre ostile, tra caro-energia, fisco asfissiante, burocrazia paralizzante. E non si sa con chi prendersela, finendo con il litigare, spaccati in due. Trionfano gli opposti celodurismi, le anime pubbliche e quelle private confliggono.

Boccia sa bene qual è il problema. Conosce la macchina confindustriale dall’interno. E non è in conflitto d’interessi: lui è un piccolo-medio imprenditore che non dipende dal pubblico. Ma questo gli porta il sostegno di tante teste, non di poche teste pesanti. Per vincere – e di strettissima misura, appena 5 voti per quei 100 “sì” a 91 “no” che lo hanno nominato – ha avuto bisogno del sostegno dei pubblici ed oggi si trova accusato dal “fronte del Nord” di essere troppo filogovernativo.

In realtà è un’accusa ingiusta. Boccia non ha firmato cambiali in bianco a Renzi. Rispetto allo slogan che il suo grande sostenitore Luigi Abete (appena nominato vicepresidente del Sole) coniò da presidente della confederazione (“siamo apartitici e agovernativi”) sembra oggettivamente un tantino più filogovernativo. In particolare sulla riforma costituzionale, che sta sostenendo, nei toni, senza se e senza ma. Però anche Assolombarda, roccaforte di uno dei suoi principali avversari durante la campagna elettorale, Gianfelice Rocca, è per il “sì”. E allora?

Allora si avverte qui l’assenza di un capo vero nel fronte privato. Si sente la mancanza della Fiat. Quella Fiat che, vivo l’Avvocato, aveva la “golden share” sulla nomina del presidente, poi scomparso il “grande vecchio” si era un po’ appannata ma contava ancora, e che invece oggi, nell’era Marchionne, è uscita dall’associazione, in rotta con la linea negoziale seguita nelle trattative sulle regole del rapporto di lavoro, ha preso la sede legale in Olanda e quella fiscale in Gran Bretagna e dunque ha “cambiato verso” rispetto all’Italia, paradossalmente sostenendo come mai in passato un governo, quello di Renzi, del quale non si fida, perché ha preso le distanze dal Paese!

Ma una Confindustria spaccata non è soltanto un brutto spettacolo in più che l’Italia economica offre al mondo: è anche un “vulnus” per la buona salute del metodo democratico in Italia. E’ un altro “corpo intermedio” che s’indebolisce fino a non contare quasi più niente, per la gioia del premier Renzi, che i corpi intermedi non li può vedere. Ed è per questo che a tutti, anche agli avversari di un tempo – i sindacati, ormai desaparecidi sulla scena del dibattito politico nazionale – dovrebbe stare a cuore una Confindustria ricompattata. Altro che poteri forti: così è all’impotenza. Ed è un danno per il sistema.

Boccia è tenace e va avanti. Il patatrac del Sole lo ha colpito d’incontro, per quanto fossero almeno tre anni che il delirio gestionale nel quale versava l’azienda era noto a chiunque volesse informarsi con un minimo di oggettività. Bisogna superare le polemiche e rimettere insieme i cocci – Giorgio Fossa dovrebbe essere all’altezza della necessità come nuovo presidente della casa editrice – e, contemporaneamente, rifondare la Confindustria, restituendola ad un ruolo di sana dialettica, emancipata dal gioco parastatale che oggi l’appesantisce. Un doppio lavoraccio. Auguri sinceri.