La produttività del lavoro e dell’impresa italiana è, storicamente, il punto debole del nostro sistema economico. Essa esprime, sia quantitativamente che qualitativamente, la capacità che l’impresa e il sistema produttivo hanno di generare valore e, in termini prettamente economici, fatturato; e quindi Pil. In poche parole, la produttività può essere definita come il rapporto tra la quantità di risorse impiegate nel processo di produzione e il suo output: ecco perché è importante rapportarla al costo della produzione. Ma, così facendo, risulta subito evidente che c’è un differenziale rilevante tra il costo della produzione delle imprese di casa nostra e quello delle altre economie avanzate (vedi, ad esempio, Germania, Francia e GB): non è, infatti, il costo del lavoro il problema dell’Italia , è assolutamente in linea con i parametri europei e in alcuni casi anche più basso (si vedano rilevazioni periodiche Eurostat) -, ma il costo del lavoro rapportato all’unità di prodotto (clup) che, dal 2000 a oggi, nel settore manifatturiero è cresciuto del 34,7% rispetto al 2,3% della Francia e a una diminuzione dello 0,2% della Germania e del 5,4% della Gran Bretagna.
Inoltre, se guardiamo in particolare ai casi tedesco e inglese, mentre negli anni 2008-2014 in Italia sono stati persi 1,2 milioni di posti di lavoro, in Germania sono aumentati di 1,8 milioni e in GB di 900mila unità. In Europa, solo la Spagna ha fatto peggio, bruciando 3,4 milioni di posti di lavoro. Dopo l’Italia, la Grecia ne ha persi un milione su una popolazione complessiva, però, molto più piccola. Perché questi differenziali?
Per rispondere a questa domanda, può essere utile ricordare un importante studio di qualche anno fa dell’Università Cattolica di Milano. Tale indagine, riferita agli anni più duri della recente crisi economica, studiava il rapporto tra il nostro Pil potenziale e quello effettivo. Il Pil potenziale è il livello di Pil raggiungibile stabilmente da un sistema economico. È, in altri termini, il calcolo del valore di ricchezza che si può generare dall’apparato produttivo in atto, cioè dalla consistenza degli impianti produttivi; questo dato potenziale è basato sull’esistenza degli impianti e sulla loro potenzialità reale, non è puramente teorico. Dal confronto tra il Pil potenziale e il Pil effettivo che si ha sul reale utilizzo degli impianti medesimi (settore produttivo industria manifatturiera) appare con evidenza una forbice: il Pil potenziale tende a crescere e, con l’incombere della crisi, il Pil reale cala.
C’è un divario importante, ma è chiaro che in condizioni di aumento della domanda questo divario si riduce. Il problema non è tuttavia solo questo divario: il punto fondamentale è che con la recessione flette notevolmente anche il Pil potenziale, ciò vuol dire che l’apparato produttivo cede. Non è solo questione del divario tra i due Pil. C’è un Pil potenziale che flette esso stesso. Siamo in presenza di una diminuzione dell’apparato produttivo. Ciò significa che una recessione profonda lascia segni permanenti sulla capacità di crescita di un Paese come l’Italia.
Si ricordi, anche, che dal 2000 al 2007 la crescita media del Pil in Italia è stata pari all’1,5% (2,4% nell’Eurozona). Con la crisi economica, gli indicatori sono peggiorati ulteriormente: il Pil cala complessivamente quasi del 9%, all’incirca del 5% in più rispetto alla media europea.
Ma perché questo cedimento dell’apparato produttivo? Siamo di fronte alla questione fondamentale del nostro Paese: questo fenomeno di cedimento dell’apparato produttivo è l’effetto del gap di innovazione che l’Italia paga nei confronti di sistemi economici più maturi, in particolare GB e Germania, dove la grande impresa risulta più sviluppata che da noi.
Con l’obiettivo di incidere sulla produttività del lavoro e, quindi, su Pil e occupazione, oggi il legislatore incentiva la contrattazione di secondo livello. Sarà sufficiente questo per rispondere al nostro annoso problema? Certamente parliamo di uno strumento importante, che tuttavia risulterà utile solo e soltanto nella misura in cui accoglierà reali elementi di crescita e innovazione dei processi produttivi e di organizzazione del lavoro.
L’economia globale premierà – in modo sempre più progressivo – competenze, specialità e conoscenze, sui cui vale a varrà la pena investire in ottica di competitività e innovazione. Se consideriamo che il 98% di ciò che compone un iPhone è fatto di prodotti che Apple compra e assembla – e molte aziende fornitrici di Apple sono italiane – questo ci dice che il prodotto ad alto valore aggiunto ha oggi buone possibilità di entrare nelle grandi “catene del valore”. La manifattura italiana ha, per questo motivo, ampi spazi di mercato davanti a sé e soprattutto quell’importante tradizione che ci ha reso celebri nel mondo.
Ecco perché è importante investire nell’innovazione della produzione e del prodotto. Tuttavia, per fare questo, serve investire su competenze e conoscenze; ma, soprattutto, su chi ha capacità di governare i processi di trasformazione: questo è l’elemento di cui ha più bisogno l’impresa italiana alle porte di Industry 4.0.
Twitter @sabella_thinkin