“E per la sua azienda, che futuro immagina? ‘Non posso permettermi il lusso di immaginare. Devo muovermi, ogni giorno. Con i tempi della burocrazia italiana, devo progettare adesso i negozi del 2050. A 89 anni devo pensare come un giovane'”. C’era tutto Bernardo Caprotti in questa risposta data a Franco Vanni di Repubblica in un’intervista – una delle pochissime – concessa due anni fa dal fondatore, proprietario e capo assoluto dell’Esselunga. C’era tutto di un personaggio di assoluto rilievo e assoluta contraddittorietà. Fortemente egocentrico, ma in un modo totalmente proiettato sull’azienda e, tramite essa, sui suoi clienti e sui suoi 20 mila dipendenti, che non a caso l’hanno molto compianto. Narcisisticamente atteggiato a enfatizzare la sua insostituibilità da novantenne – “a 89 anni devo pensare come un giovane” – salvo negarsi il diritto di immaginare il futuro. 



Dopo di lui, il diluvio? Probabilmente no, grazie alla forza e alle competenze accumulate dentro l’azienda. Ma certo non c’è ancora una strada vincente e serena segnata per il domani, neanche quella di vendere a uno dei due fondi (Blackstone o Cvc) che vorrebbero acquistare, scelta non a caso congelata, come primissima decisione del day-after, dal notaio Marchetti che ha assunto la presidenza del gruppo.



La campagna di “beatificazione laica” in corso attorno all’imprenditore scomparso – pur con qualche nota opportunamente stonata, come la prudenza del Sindaco Sala nell’offrire un “Ambrogino d’oro” alla memoria di un uomo che l’aveva rifiutato due volte in vita, chissà se più per snobismo o arroganza – non rende dunque giustizia neanche al suo destinatario. Probabilmente lui stesso a tal punto convinto del suo essere il meglio possibile, da non poter accettare alcuna onorificenza da alcuna autorità.

Ma questa campagna è un segno dei tempi. Tempi strani, alla ricerca di miti laici, in cui una frase senza senso come “stay foolish, stay hungry” (“siate folli, siate affamati”, Steve Jobs) viene ripetuta ed evocata come un manta di sapienza. Quarant’anni dopo l’epopea in cui – per opposta esaltazione – “Agnelli e Pirelli”, nei cortei di contestazione studentesca e operaia, erano indicati come “ladri gemelli”, oggi i miti collettivi devono per forza essere gli imprenditori di successo. Con qualche salvifica ironia – il Crozza sarcastico sull'”Italia dei carini” -, ma tanta melassa conformista su top-manager iperpagati e “tycoon” di Internet dal conto in banca inversamente proporzionale al numero di dipendenti.



Il caso-Caprotti, invece, è semmai un ritratto efficace del Giano Bifronte che è spesso l’imprenditore italiano “da manuale”, quello che all’estero non si aspettano e non decifrano, quello che spiazza e sorprende, spuntando come un fungo nelle gare internazionali e superando tedeschi e giapponesi, ma, contemporaneamente, del tutto incapace di fare sistema, di aprirsi al mercato dei capitali, di investire sul management, di superare la dimensione familiare della proprietà, a dispetto della dimensione aziendale raggiunta.

Poi c’è un tema di gusto, stile e carattere. Dove sta scritto che successo deve far rima con eccesso, eccesso di assertività, di durezza, di polemica? Celebrare come prodezze memorabili scatti d’ira e di mani contro fotoreporter colpevoli soltanto di star facendo il loro lavoro sconcerta: perché? Quale successo economico può mai legittimare l’aggressività rabbiosa, non solo verbale? Le assidue presenze a sorpresa nei supermercati, per controllare che tutto fosse in ordine, saranno anche note di colorita mitologia d’impresa, ma descrivono contemporaneamente la riluttanza a trasformare in metodo gestionale spersonalizzato un “occhio del padrone” che, ovviamente, mal si concilia con la taglia xxl di un’azienda. 

Poi c’è un dato di sostanza. Da tempo il capitalismo mondiale (alias: quello delle grandi banche americane, che comandano sul mondo) ha archiviato il birignao politicamente corretto degli anni Novanta secondo cui le aziende controllate da investitori istituzionali sono meglio di quelle a controllo familiare. Non è vero, punto. Quasi tutte le prime 500 aziende statunitensi sono controllate da famiglie, e funzionano. E l’Europa ha fatto di più, introducendo quell’obbrobrio giuridico che si chiama “voto plurimo” e dà diritto ai soci di vecchia data di una società quotata in Borsa di far “pesare” le proprie azioni, nelle assemblee in cui si decide il futuro dell’impresa, molto di più di quanto incidano percentualmente sul capitale sociale. È questa la ragione per cui varie grandi società, prima fra tutte la Fiat (pardon: la Fca) hanno trasferito da tempo la sede legale in Olanda, lo Stato che meglio e più presto di altri ha incardinato nel proprio ordinamento nazionale la norma europea al riguardo. Significa che oggi con il 30% del capitale di un’azienda, magari detenuto attraverso un’altra holding in cui si detiene il 30% attraverso una terza holding in cui si detiene il 36% si può contare sulla maggioranza assoluta dei voti assembleari dell’impresa. È proprio il caso della Fiat dove il ramo della famiglia Agnelli-Nasi-Camerana che fa capo a John Elkann controlla con il 37% l’accomandita a capo della filiera societaria, la quale controlla con poco più del 50% la holding Exor che a sua volta controlla con il 30 virgola qualcosa la Fiat. “In trasparenza”, dunque, basta il 37% del 51% del 30% (totale: il 4,5%) per governare un impero. Nulla osta, quindi, contro l’apertura del capitale aziendale al mercato, rispetto all’esigenza dell’imprenditore di conservare in mano tutte le leve della gestione.

A patto di sobbarcarsi ai riti della pseudo-trasparenza: i bilanci certificati che non garantiscono nulla a nessuno quando le cose vanno male e vogliono essere occultate da gestori in malafede, e la comunicazione finanziaria. Bernardo Caprotti queste ritualità non le tollerava: la cosa può anche risultare simpatica, rispetto all’ipocrisia imperante; ma un’azienda così grande chiusa ai mercati e in balia della volontà di due o tre persone sole, è un’azienda più debole.

E poi: attaccare le Coop, effettivamente spesso abusanti delle loro radici politiche per contrapporsi ai concorrenti privati, può anche essere stata per Caprotti una “legittima difesa”, eppure almeno nei toni un po’ eccessiva, visto che una condanna per concorrenza sleale, dopo il libro “Falce e carrello” scritto appunto da Caprotti contro le Coop, fu nel 2011 l’imprenditore a subirla, e non i cooperatori rossi che pure esenti da pecche non sono.

O ancora: porre se stessi e le proprie idee al centro del mondo al di là dell’evidenza e del buon senso, come nella campagna d’opinione a favore di un surreale trasferimento dell’hub aeroportuale del Nord Italia da Malpensa a Montichiari, buttando via decenni e decine di miliardi… Ma in che logica, spinti da quale demone beffardo? 

Infine, chi siamo noi per giudicare la lacerazione di una famiglia? Però di fronte ai tanti casi in cui l’impresa familiare italiana ha saputo e sa rigenerarsi ed evolvere nella solidarietà tra generazioni, in cui figli coerenti con i padri – forse anche perché aiutati a esserlo – ne raccolgono il testimone e ne replicano o amplificano il successo, ecco: vien da pensare che, al netto dell’ammirazione per l’efficienza dell’azienda come l’ha appena lasciata Bernardo Caprotti, possano esserci per l’impresa familiare italiana esempi migliori di passaggio generazionale.