Per capire meglio in che direzione la Confindustria deve decidere di andare nei prossimi quattro anni, bisogna concentrarsi su due immagini: la prima, il corteo di cinquemila imprenditori, manager e lavoratori della siderurgia che hanno deciso di sfilare insieme a Bruxelles davanti ai palazzi del potere Comunitario per rivendicare tutele contro le produzioni asiatiche in “social dumping” che minacciano di far saltare i conti dell’acciaio europeo; la seconda, l’accordo tra la Fiom e la Confapi, la piccola e gracile ma creativa associazione delle piccole imprese “antagonista” di Confindustria, per la riqualificazione culturale e la laurea degli operai metalmeccanici e dei loro figli.



Patti tra produttori, patti tra generazioni, scala sovranazionale: ecco le tre dimensioni sulle quali le vecchie Confindustrie nazionali (tutte, non solo la nostra) dovranno misurarsi se vorranno da un lato riscattarsi dalla crescente marginalità nella quale i fatti, in Europa, le stanno confinando e dall’altro aiutare sul serio i loro iscritti – e così, tenendoseli vicini – ad affrontare una discontinuità che stordisce e su cui per mille ragioni la Confindustria del pur degnissimo Squinzi non ha toccato palla.



È una discontinuità senza precedenti, tecnologica, sociale, geopolitica: è dettata innanzitutto dalla globalizzazione, appunto, che va cavalcata ma anche in qualche modo gestita, e non certo asserragliandosi nella sede minima di viale Astronomia; dalla digitalizzazione, partita tra giganti, dove interfacciarsi con lo scacchiere-giocattolo delle varie Agenzie digitali nazionali ha senso come giocare a Risiko pensando di contrastare il Califfo; dalla sostenibilità ambientale, che dopo Cop21, non è più un optional; e da quella sociale – tra nuova emigrazione interna da povertà e ondate migratorie dal Sud del mondo.



Su queste premesse, si profila assai complessa la partita sul nuovo vertice confindustriale che si dipanerà da oggi al prossimo 31 marzo – data in cui dovrebbe giungere il voto del Consiglio generale di Confindustria, cioè i 196 grandi elettori che consegnano all’assemblea generale di maggio il nome da ratificare (una bocciatura non si è mai verificata). Partita complessa perché per la prima volta le nomine si giocheranno con le regole nuove della riforma Pesenti, i saggi estratti a sorte – e non più individuati nei “past-president” – e il quorum minimo del 20% dei voti per presentarsi al voto del Consiglio generale, quorum da documentare con gli “endorsment” dei grandi elettori, cioè le associazioni territoriali e quelle di categoria. Per di più, in teoria, gli “animal spirits” della Confindustria predicano l’unanimismo, se non altro di facciata: e invece il rischio concreto è che a questo giro l’unanimità vera non si raggiunga. Il che fa storcere il naso ai più tradizionalisti. Non a caso da più parti si cerca di convincere i quattro contendenti ufficialmente scesi in campo a trovare un accordo di desistenza che li riduca a tre o, meglio, a due. Ma non è detto che i tempi siano maturi.

Certo è che incrociando le categorie della globalizzazione e della sostenibilità non tutti e quattro i profili sembrerebbero prestarsi allo stesso modo. Per esempio, il pur bravissimo imprenditore della Officine Meccaniche Rezzatesi Marco Bonometti, efficiente e internazionale, non ha un “track-record” di armonia con le controparti sindacali: semmai, è più un uomo di rottura che di mediazione. Politicamente molto a destra. Ma proprio molto.

Vincenzo Boccia e Aurelio Regina sono invece senz’altro aperti alla mediazione, ma rappresentano anche aziende più piccole e, soprattutto la prima, meno internazionale: stampatore apprezzato ma minuscolo Boccia, contitolare del Sigaro Toscano Regina.

L’unico dei quattro ad avere requisiti indiscutibili su entrambi i versanti – esigenze e problematiche della globalizzazione, sostenibilità sociale ed economica – è dunque Alberto Vacchi, presidente e di fatto fondatore dell’Ima (l’ha portata da 70 a oltre 1000 milioni di fatturato), multinazionale tascabile del packaging complesso (è leader nel settore dell’imballaggio alimentare, per esempio produce le bustine da tè per tutto il mondo), con il 91% del fatturato all’estero. Ed è quotata in Borsa, con un azionariato istituzionale fitto e a sua volta internazionale.

Più globale di così… e quanto alla sostenibilità, basti pensare che Vacchi ha un sistema di welfare aziendale che farebbe invidia ai danesi, ed è condiviso da tutti i sindacati confederali (Fiom compresa, per capirsi): elastico al punto da prevedere la possibilità dei principali subfornitori dell’Ima di scambiarsi personale l’un l’altro nei periodi di ciclicità in modo da evitare al massimo il ricorso agli ammortizzatori sociali.

Tutto questo non implica che – sedendosi eventualmente sulla poltrona più alta della Confindustria – Vacchi sarebbe in grado di gestirla al meglio: lo stesso Squinzi, il presidente uscente, aveva all’attivo i requisiti della globalizzazione e della sostenibilità, eppure – pur rispettandolo tutti come imprenditore – molti detrattori lamentano proprio che non abbia fatto abbastanza lungo queste due direttrici. Però, insomma: chi già dispone dei ferri del mestiere ha più probabilità di riuscire a usarli in modo nuovo di chi invece non li ha mai maneggiati in precedenza.