Come un parto, anche se un parto collettivo. Certo Telecom Italia ce l’avrebbe fatta comunque, a cambiare marchio, adesso si chiama Tim; ma forse non è un caso se a farcela – presto e bene – è stato un team di donne. Quattro dirigenti, quattro “mamme” per un marchio nuovo. “Sì: questo marchio è la faccia di tutti noi”, dice Carlotta Ventura, direttore brand strategy & media di Telecom Italia, “È figlio di tutti. Frutto di scelte fatte insieme. Di due anni di lavoro vissuti insieme”.
C’è dunque quest’archeologa bionda, minuta e seria seria, che si apre però volentieri a sorridenti ventate di ironia, dietro il “rebranding” più importante degli ultimi anni sul mercato italiano. “Archeologa in pensione” si definisce lei, appunto ironicamente, sul profilo Twitter: perché i campi di scavo li ha fatti sul serio, e li racconta con affettuosa nostalgia. E di sé, su Twitter, aggiunge: “riottosa quota rosa, comunico non per protestare ma per esprimere opinioni personali”. È lei, che ha coordinato il team delle quattro “mamme”, a sua volta guidato da Stella Romagnoli, responsabile di brand strategy, corporate communication e ricerche, con Gaia Spinella (ricerche), Isabella Lauro (strategia), Elena Tondini (creatività).
“Vede, questo rebranding è un progetto che ha viaggiato insieme alla volontà di tutti di fare un cambiamento profondo”, racconta Ventura, “ben più profondo, per l’azienda, della sua componente visuale, pur così importante. Abbiamo voluto attuare un modello di politica partecipativa, e oggi possiamo dire di esserci riusciti”. Uhm, politica partecipativa: e che sarà?
E invece sì. Bisogna conoscerle, le corporation. Stratificazioni, meandri gestionali, piccoli e grandi circoli di potere, ma anche di affezioni sincere, che è sempre difficile rimettere in discussione. C’è chi non è d’accordo, chi teme di perdere ruolo, chi semplicemente non ci crede. E le aziende di servizi sono fatte di persone: bisogna convincerle. Perciò ci vuole tatto, perciò ci vuole tempo, perciò forse ci riescono meglio le donne.
E del resto Telecom aveva veramente sviluppato e gestito, fino a ieri, una costellazione di marchi che stava pericolosamente somigliando sempre più a una nebulosa. Sotto la “legal entity”, cioè il marchio Telecom Italia, c’era un sistema di marchi a scatole cinesi. Telecom Italia era anche il marchio di vendita dei servizi su rete fissa. Tim era il marchio per i servizi di rete mobile. “E poi c’era una pletora di sotto-marchi”, ricostruisce Ventura, “che vendevano la reason why dei due marchi principali, come Nuvola Italiana, Impresa Semplice e tanti, troppi altri”.
“In questo quadro il cliente, per comprare da noi un’offerta convergente, doveva comporre un puzzle. Telefonia fissa, mobile, cloud, intrattenimento… La convergenza, che di fatto è una realtà, non lo appariva affatto”. La nuova logica scelta è stata quella della “label di prodotto”, un po’ come Google. “Una logica che si esprime con il rebranding, ma nasce da una vera riorganizzazione dell’offerta”, dice ancora Carlotta Ventura. “Per far capire finalmente ai clienti, con semplicità, che possono godere di una serie di servizi essenziali indipendente dal fatto che funzionino su rete fissa o mobile”.
“Per realizzare questa che definirei una rivoluzione culturale”, rievoca Ventura, “abbiamo fatto un grande lavoro di relazioni interne. Abbiamo sicuramente investito più tempo, energia e risorse nella cura dei nostri colleghi che nell’attività verso l’esterno. Ma ci siamo riusciti, e bene. In questo senso dico che un’operazione di questo genere, in cui cambi il tuo modello dall’interno, è un’operazione con delle componenti politiche, nel senso migliore del termine”.
Chiariamo ancora un dettaglio: riottosa quota rosa, si autodefinisce Carlotta Ventura; la squadra del rebranding è tutta di donne. E i poveri colleghi uomini? “Non ne voglio fare un tema di differenza di genere”, sintetizza lei, “ma di differenza culturale da mettere a valor comune. Questo sì. Un team tutto al femminile che riesce in un’operazione di questo tipo non è un risultato ovvio”. E adesso? Adesso parte anche il Brasile. Ci sarà da ballare.