A paragone l’Italicum è un gioiellino: ipercritici, sempre che possano, con la politica, gli imprenditori italiani si sono rivelati anche peggiori dei partiti nel riscrivere le norme per l’elezione del presidente della loro Confindustria, norme per la prima volta in atto quest’anno con l’entrata in vigore della riforma firmata da Carlo Pesenti.



Ebbene: la premessa della riforma è che i saggi incaricati di fare da arbitri tra i concorrenti non sono più i tre ultimi presidenti di Confindustria, ma sono estratti a sorte da un gruppo di nove nominati: e qui si tenta di conciliare gli opposti, cioè saggezza e casualità. Ma la vera “chicca” consiste nel presupposto del giro di frenetiche consultazioni che i saggi e gli “autocandidati” hanno fatto sia con le associazioni territoriali che con molte di quelle settoriali. Ebbene, queste consultazioni vertono su aria fritta: cioè non sull’esposizione compiuta di un programma di mandato, ma su… presunzioni di programma. Verrà solo il 17 marzo il momento in cui i concorrenti potranno comunicare formalmente alla “base” elettorale cosa intendono fare, per arrivare il 31 marzo al voto del Consiglio generale che designerà il prescelto da sottoporre alla ratifica dell’Assemblea generale di fine aprile, che sembra poco più di un atto formale, ma è teoricamente in grado di sovvertire il risultato. Tra l’altro anche l’esito del Consiglio generale non sarà così scontato come appare oggi, stando alle “dichiarazioni di voto” che stanno facendo le varie associazioni, perché i suffragi si esprimono in modalità segreta, quindi i “franchi tiratori” potrebbero anche sovvertire i pronostici.



Delizioso poi il “silenzio stampa” che i tre saggi, diciamo così, hanno imposto ai concorrenti. Adolfo Guzzini, Giorgio Marsiaj e Luca Moschini hanno imposto il silenzio stampa in nome della trasparenza: il trionfo dell’ossimoro. I saggi hanno imposto ai candidati di astenersi da “la socializzazione diffusa e indistinta” dei loro documenti, dal “rilascio di interviste sui propri programmi”, dalla “partecipazione a trasmissioni televisive” per motivi diversi dalla “promozione del proprio business”.  Se non lo fanno, ci sarà “l’automatica esclusione” del candidato. Perché? Per sventare il clima di “pressione esterna veramente indebita”. Mah.



È vera una cosa, però: che il clima di competizione è piuttosto rovente. Temperatura piuttosto incomprensibile, più di matrice “tifosa” che razionale, visto che il prossimo quadriennio confindustriale – oltre a non comportare per il Prescelto particolari vantaggi economici – sarà connotato da rogne. E infatti i quattro candidati – Alberto Vacchi, Marco Bonometti, Vincenzo Boccia e Aurelio Regina – si sono dimostrati finora molto più “fair” tra loro dell’atmosfera attorno a loro. Come se fossero ben consapevoli delle difficoltà che attendono il vincitore.

Una sarà quella dei conti di Confindustria: sia per l’inevitabile  “morosità” dei contributi che pagano gli associati (oltre il 10% secondo una stima pubblicata, e non smentita, dall’Espresso); sia per le defezioni illustri, prima fra tutte quella di Fca, che hanno ristretto la base dei contribuenti; sia per la crisi del gruppo editoriale del Sole 24 Ore, che dopo aver per decenni pompato denaro nelle casse confindustriali – e nonostante l’ottimo andamento del quotidiano-leader – nell’insieme ha accumulato forti perdite (250 milioni dal 2007, dopo cessioni per oltre 110 che hanno mitigato il saldo); e i costi di una struttura pletorica, con circa 4000 dipendenti, che non si sta razionalizzando, a dispetto degli auspici della riforma: l’unica fusione territoriale di rilievo è stata proprio quella tra Assolombarda e Monza e Brianza, il che peraltro ha dato più peso e autorevolezza ai milanesi anche in Consiglio generale e sarà quindi uno dei fattori di forza per il candidato prescelto a Milano, Vacchi.

Il quale è di fatto a oggi il favorito, avendo dalla sua non solo quest’appoggio che da solo incide per il 10% sul risultato finale, ma anche quello dell’Emilia, di sette province venete su nove, di Varese e di Bergamo… A contrastare Vacchi poteva e ancora potrebbe impegnarsi soprattutto il presidente degli industriali bresciani Marco Bonometti, il quale però, dopo essere stato visto in fitto e cordiali colloquio con lo stesso Vacchi sabato scorso a margine dell’udienza papale di Confindustria, starebbe meditando di defilarsi per non impegnarsi in uno scontro ad alto rischio apportando semmai al concorrente i propri suffragi, per quanto la cosa possa spiacere al past-presidente Antonio D’Amato, suo principale supporter. Comunque di sicuro solo Vacchi e Bonometti hanno la “caratura” imprenditoriale – dimensioni, internazionalità, innovazione – che sembra ai più il requisito imprescindibile per guidare la categoria, in Italia e fuori.

Abbastanza defilato Aurelio Regina – più manager che imprenditore – resta autorevole però anche la candidatura di Boccia, lo stampatore salernitano sostenuto dal Sud, dalla piccola impresa e dai giovani, che insieme però valgono 22 voti contro i 19 della sola Assolombarda: perché i voti confindustriali si contano e non si pesano, e quindi per quanto la struttura produttiva italiana sia imperniata sulla piccola e media impresa e per quanto i giovani imprenditori siano il futuro… contano meno, ed è anche giusto, di chi versa più contributi perché è più grande. Cioè, salvo rare eccezioni, più settentrionale.