Confindustria sceglierà giovedì il suo nuovo presidente e ambedue i candidati finali – Vincenzo Boccia e Alberto Vacchi – si presentano all’insegna della “discontinuità” rispetto a Giorgio Squinzi. Che nessuno dei due contendenti, anzitutto, sta sentendo il dovere di ringraziare per aver retto Confindustria per quattro anni, sempre tenendo fede all’impegno nonostante gravi problemi di salute. È chiaro invece che molti avrebbero preferito che Squinzi si fosse fatto da parte prima e hanno guardato con fastidio crescente alla sua volontà di portare a termine il mandato. È questa una prima notazione: un ”corpo intermedio” (nazionale) che vuole mantenere la sua identità e la sua forza sotto la pressione della globalizzazione e della propaggine rottamatoria rappresentata da un premier come Renzi non rottama così un presidente – un industriale, un uomo – come Squinzi.



I quattro anni di Squinzi sono stati probabilmente i più duri che un presidente di Confindustria abbia affrontato nei 116 anni di storia della confederazione: le due guerre mondiali e la ricostruzione-boom del secondo dopoguerra hanno fatto la fortuna dei grandi industriali fino a poco tempo fa “signori di Confindustria”, da Fiat a Pirelli. Dal 2012 al 2016 l’Azienda Italia, invece, ha perso punti di Pil, occupati, risparmi, credito bancario e molto altro. E nessuna autarchia mussoliniana, nessun piano Marshall, nessun deficit spending concertativo e inflazionistico, nessuna svalutazione competitiva sono venuti a sostenere o stimolare quella che è e resta una grande economia manifatturiera. Dall’Europa è venuta solo austerità, prima ratificata dai governi Monti e Letta, poi contestata in modo sterile da un Renzi non molto diverso da un Grillo o da un Salvini.



Sotto questo cielo, Renzi ha varato un Jobs Act che è stato uno “Squinzi Act” molto più di quanto la narrativa di palazzo Chigi abbia voluto accreditare. È stata una riforma liberal-sociale sollecitata e preparata da imprenditori come Squinzi per imprenditori come lui: un imprenditore che ancora mantiene nel suo portafoglio il 100% del capitale della sua azienda (non la quota in Borsa, né la vende a peso d’oro a qualche colosso straniero); che gestisce in prima persona un’azienda privata e non statale; un’azienda non pesantemente indebitata con le banche; non una holding finanziaria in Lussemburgo o in Olanda, ma una capogruppo industriale tuttora basata in periferia a Milano (non a Detroit); che non licenzia ma assume; che non chiede cassa integrazione poliennale per migliaia di esuberi o finanziamenti pubblici a fondo perduto per dubbi investimenti “nello sviluppo delle energie alternative al Sud”.



La vera eredità di Squinzi è l’essere stato “presidente degli industriali italiani”: non un leader stipendiato di Confindustria, non un lobbista professionale, non un “power broker” o – peggio – gregario di altri potenti o sedicenti tali. La sua eredità sta anche nel non aver fatto quello che non riteneva di fare come presidente di Confindustria: quello che altri presidenti prima di lui avevano invece fatto come attività principale.

Durante il suo mandato Squinzi raramente ha pernottato a Roma. Altri, al posto suo, hanno utilizzato Confindustria come casa loro: spesso non avendo più titolo per chiamarsi “industriali”. Sono stati costoro a continuare una gestione impropria – “anti -squinziana” – della Confindustria-holding, che Renzi ha oggi buon gioco nel contestare come “carrozzone” gemello della Cgil: la Confindustria che assegna cattedre-prebenda alla Luiss e veste sempre peggio le vesti di editore “non industriale” de Il Sole 24 Ore. Anche il disinteresse – apparente – per la “roba” di Confindustria fa parte dell’eredità di Squinzi: Chi promette “discontinuita” – rifiutando implicitamente questa eredità – se ne assume tutte le responsabilità.