Ventimila euro al mese: poi nessuno ci sarà mai arrivato, a spendere tanto, ma è virtualmente questo il “plafond” di spese riservato ai vicepresidenti della Confindustria. Che sono dieci. Un’enormità. Spese da giustificare, certo: ma prima di mettere in dubbio il diritto di un vicepresidente a invitare a cena venti colleghi o a volare in elicottero per una destinazione urgente e imprevista, qualsiasi ufficio amministrativo ci penserebbe due volte. E infatti non sono mai accadute simili contestazioni infamanti.



Sono anche queste piccole cose, piccole per modo di dire, a spiegare in parte la bagarre che si è riaperta quest’anno nella corsa testa-a-testa tra Vincenzo Boccia e Alberto Vacchi, i due candidati alla successione a Giorgio Squinzi al vertice della Confindustria. Dopo l’analogo, stressante duello che si svolse quattro anni fa appunto tra Squinzi e lo sfidante Bombassei. L’attuale presidente del Comitato tecnico per il credito e il risparmio di Confindustria (Boccia) e l’attuale presidente di Unindustria Bologna (Vacchi) sono probabilmente innocenti della canea che si è scatenata attorno e dietro di loro, tra i supporter della prima e soprattutto dell’ultima ora che lungi dal seguire programmi politici o associativi degni di questo nome inseguono gli obiettivi della categoria dei ventimila euro al mese.



Ma sta di fatto che tra le tante ragioni che possono spingere i 197 membri di diritto del Consiglio generale che giovedì 31 eleggeranno il nuovo presidente (sarebbero 198, ma si sa già che Vittorio Merloni, malato, non potrà partecipare) ci sono interessi di ogni genere. Nobili e anche ignobili. Per la cronaca, entrambi gli schieramenti accreditano il proprio paladino di un margine di vantaggio pressappoco equivalente, tra i 15 e i 20 voti sul rivale, un’enormità rispetto ai 6 che divisero, quattro anni fa, Squinzi da Bombassei.

Ma sono tutti, proprio tutti, conti senza l’oste. Perché questo genere di contabilità è stata costruito sulle dichiarazioni pubbliche rese dai vari protagonisti e su quelle raccolte dai saggi formalmente dalla voce degli “speaker” delle varie associazioni, territoriali e di categoria, interpellate nelle ultime settimane. Ma il voto del consiglio è segreto. E questo fa sì che in ultima analisi contino le teste fisicamente presenti in consiglio.



Un esempio: i giovani di Confindustria, presieduti dal bravissimo Marco Gay, si sono pronunciati a favore di Boccia dopo un dibattito interno piuttosto divisivo. Tanto è vero che successivamente il Gruppo Giovani di Assolombarda si è espresso a favore di Vacchi. Per capire come voteranno i 6 consiglieri designati dai giovani bisogna dunque sapere chi tra quei 6 preferirà aderire all’input del consiglio nazionale del gruppo, che ha detto “votiamo Vacchi”, o all’organo territoriale lombardo che ha detto il contrario; poiché tra i 6 giovani votanti siede anche il past-president dei Giovani, Jacopo Morelli, che ieri ha detto chiaro e tondo che voterà Vacchi, possiamo dare per certo che quei 6 voti bocciani sono diventati 5. Dare per certo, poi: sempre che i cinque bocciani si confermeranno tali nel segreto dell’urna e che Morelli, uomo d’onore, agirà coerentemente agli enunciati…

Chiaro, adesso? Il pasticcio, l’inguacchio fatto dalla riforma Pesenti – firmata paradossalmente da un imprenditore che intanto che riformava pensava a vendere agli stranieri il suo sanissimo gruppo aziendale – è …insanabile, a questo turno. E quindi resta inaffidabile qualsiasi totonomine. E anche qualsiasi strologatura sulle future squadre.

Due ordini di considerazioni si possono invece fare sui due candidati e sul possibile effetto di una rispettiva nomina, anche alla luce dei programmi che finalmente il 17 marzo hanno potuto presentare agli elettori.

Come già quattro anni fa con Bombassei e Squinzi, la Confindustria ha espresso due cavalli di razza, per questa volata finale: e questo è l’unico merito. Perché Boccia, per quanto guidi un gruppo che è 25 volte più piccolo di quello di Vacchi (45 milioni di fatturato Arti Grafiche Boccia contro i 1100 di Ima) può vantarsi di aver sviluppato l’azienda paterna, una piccola tipografia, fino alle attuali dimensioni molto significative nel settore, soprattutto al Sud; e Vacchi, che ha praticamente decuplicato l’azienda di famiglia, esportando oggi il 93% del fatturato da leader mondiale del settore, quando parla di globalizzazione e innovazione – cioè i due temi di cui deve parlare l’industria italiana se vuol vivere – sa di cosa parla. Bravi entrambi, dunque. Ed entrambi rappresentativi di due parti essenziali al sistema: le medie aziende internazionalizzate come l’Ima, se ne contano 3-4.000 secondo Mediobanca, che esportano e tengono a galla il barcone della nostra manifattura; e le piccole imprese come quella di Boccia, senza le quali il centro-sud sarebbe una pura sacca di assistenzialismo statale declinante. Ma, dopo aver reso questi omaggi, chi dei due potrà fare il bene dell’industria italiana, oggi così in difficoltà di competizione?

Alla luce dei programmi si può dire che Boccia è più continuista rispetto alla struttura di Confindustria, nella quale opera da tredici anni, e più vicino al governo Renzi, ricambiato peraltro dall’endorsement di due renziani doc come il commissario alla spending review Yoram Gutgeld e il capo della segreteria del ministero dell’Economia Fabrizio Pagani; ed è figlio legittimo della tecno-struttura di Confindustria e di molti suoi mandarini storici. Vacchi invece è più “a-governativo” di Boccia – per riutilizzare una bella definizione coniata da un ex presidente in gamba come Luigi Abete – e soprattutto è distante dai mandarini della Confindustria, quelli che avallano da sempre e in parte condividono la logica del super-plafond delle carte di credito.

Chi crede, dunque, che Confindustria debba vivere una fase di razionalizzazione organizzativa e di “disruption” metodologica nell’esercizio del suo ruolo negoziale per ottenere di più da Roma e da Bruxelles, dovrà o dovrebbe votare Vacchi; chi crede che Renzi sia il miglior premier degli ultimi decenni per gli interessi dell’impresa e che la tecnostruttura di Confindustria sia una roba coi fiocchi, deve o dovrebbe votare Boccia.

Un’ultima annotazione, per cedere – a dispetto dell’incoerenza, dopo i ragionamenti di poco fa – alla tentazione di azzardare pronostici: il roccioso presidente di Unindustria Brescia Marco Bonometti, che si era sfilato dalla corsa una quindicina di giorni fa, ieri ha fatto sapere tramite un’agenzia di stampa che intende apportare il voto suoi e dei suoi supporter – chi dice siano dieci, chi tre – a Vacchi. Una trasfusione certo proficua, se non determinante. Resta, però, da parte di Bonometti – preziosa e da non trascurare, un punto in più a favore del “prescelto” Vacchi che certo non la trascurerebbe, se eletto – l’invettiva affidata a un comunicato stampa dopo il ritiro: “I vincoli imposti ai candidati (dalla riforma, ndr) hanno favorito ‘il professionismo confindustriale’, che ha potuto lavorare indisturbato, tessendo ragnatele e scambiando consensi, come la peggiore politica da noi sempre vituperata. Questo non è nel mio dna. Tuttavia, credo in Confindustria e continuerò ad adoperarmi affinché questa organizzazione, che ha sempre svolto un ruolo prezioso, possa continuare a lavorare per gli imprenditori e per le imprese, con l’imprescindibile spirito di servizio, senza il quale il rischio di perdere efficacia diventa grave e insostenibile”.

Ecco: un testamento morale per Vacchi. Ma in fondo per chiunque abbia a cuore Confindustria. E l’industria italiana.