In un clima mefitico sono entrate nei dieci giorni cruciali le procedure di designazione del nuovo presidente di Confindustria. Procedure democratiche nelle intenzioni degli inesperti riformatori, ma talmente farraginose e opache da trasformare una normale competizione politica “di base” – del genere della pur balorde primarie del Pd – in una sorta di roulette russa: “Ci manca solo che spuntino a votare imprenditori cinesi”, ridacchia perfido un imprenditore di Prato, dove per l’appunto un po’ di aziende cinesi iscritte a Confindustria non mancano.



Qual è il punto? Semplice. Il Consiglio generale della Confindustria, di 197 membri, che il 17 marzo ascolterà i 4 candidati a oggi individuati dai “saggi” esporre i loro programmi e che il 31 marzo voterà sull’unico nome da presentare all’assemblea plenaria privata di fine maggio per “l’incoronazione”… si sta dividendo: anzi, è già bello e diviso. E fin qui, nel gioco democratico, non ci sarebbe niente di male.



Ma i problemi sorgono dalle modalità con cui sta delineandosi questa divisione. Nel Consiglio, infatti, seggono i delegati di due generi di associazioni: quelle di categoria e quelle territoriali. Associazioni che nelle ultime settimane hanno incontrato e ancora stanno incontrando i candidati, e si stanno man mano pronunciando. Ma a mettere in fila e sommare le manifestazioni di voto emerse a valle di questi incontri, ci si perde e – proprio come nella politica policata dei partiti – sembra che stiano per vincere tutti: Alberto Vacchi e Vincenzo Boccia, i due candidati oggettivamente più avanti; ma anche Marco Bonetti e Aurelio Regina, pur outsider, non sembrano poi così mal messi.



Qual è il problema? E perché il clima si è fatto mefitico? Il problema è che le associazioni, sia territoriali che di categoria, che stanno esprimendosi, lo stanno facendo con modalità estemporanee, chi più formalmente, chi meno; soprattutto, in molti casi gli orientamenti si sono oggettivamente divisi; e se la maggioranza di una territoriale ha deciso di puntare su un candidato, nulla impedirà ai delegati espressi in Consiglio dalla minoranza di quella territoriale di votare contro nel decisivo voto del 31 marzo, visto che il voto è segreto, a suggello statutario della “libertà di coscienza” dei singoli.

Certo, è indicativa la serie di “endorsment” che sta arrivando da più parti e che vede a favore di Vacchi Assolombarda, Emilia Romagna, Ceramica, Varese, Bergamo, Ucima, e anche i veneti di Udine, Pordenone, Treviso, Padova e Belluno; o, per quanto riguarda Boccia, Piccola industria, Giovani, Puglia, Calabria, Lecco, Sondrio, Piemonte e Val D’Aosta. Ma al livello inferiore dell’ufficialità di questi endorsment possono sempre scattare i “franchi tiratori”.

Nel frattempo sta dipanandosi un gioco al massacro, tra la lobby e la comunicazione, in cui sostanzialmente ciascun fronte – quanto spinto consapevolmente e direttamente dai vari candidati o quanto invece dai loro grandi elettori è difficile capirlo – più che vantare i meriti del proprio campione (chissà perché obbligati tutti a tacere sul programma fino al 17 marzo), punta a evidenziare i limiti dell’avversario. E dei suoi sponsor.

Per esempio, la rottura che si consumò a suo tempo tra Emma Marcegaglia e il suo predecessore Luca di Montezemolo si riverbera pari-pari sui (in fondo incolpevoli) rispettivi pupilli. I detrattori del presidente di Alitalia sparano su Vacchi, così come ha fatto chi pensava che Gianfelice Rocca, altro sponsor di Vacchi, volesse in cambio del suo appoggio poter comprare Il Sole 24 Ore e denigrava il bolognese per questo, salvo poi essere smentito da una precisa nota dell’attuale capo di Assolombarda. I detrattori della Marcegaglia sparano su Boccia, accusandolo di non essere davvero rappresentativo del nucleo fondante del sistema produttivo italiano: piccolo, meridionale, buon per lui che non è comunista. Secondo i “bocciani”, invece, è troppo comunista Vacchi, reo di aver ricevuto l’endorsment della Fiom, con cui in realtà convive perché sa negoziare bene. Mentre Boccia sarebbe poco internazionale, ma in effetti per uno stampatore esportare il 30% non è affatto male…

E ancora: la circostanza che Bonometti sia un fornitore Fiat è alternativamente usata per denigrarlo o encomiarlo, ovviamente a seconda dell’atteggiamento degli interessati verso Fiat. E che Regina sia un ex manager entrato nella proprietà del Sigaro Toscano è un fatto narrato come encomio (un self-made-man) o detrazione (un pesce piccolo, anzi minimo).

Ecco perché la riforma elettorale di Confindustria si è rivelata infelice. Non promuove una vera trasparenza nell’attuale, cruciale fase di selezione; lascia campo libero a lobbies e fazioni, senza dare viceversa vero risalto ai programmi; mobilita i grandi elettori dei vari salotti, anziché promuovere semplici e dirette raccolte di firme o – perché no – di sottoscrizioni on-line. E riserva alla grande assemblea di Confindustria, con i suoi oltre 1300 delegati, un ruolo meramente notarile, cioè semplicemente quello di ratificare le decisioni prese dai loro 197 capi.

Certo, in teoria l’assemblea potrebbe, votando contro il candidato designato, sconfessare la scelta del Consiglio Generale. Ma sarebbe davvero il colmo.