Nel passaggio che va dalla grande critica della ragione di Kant ai sistemi idealistici e romantici dell’800, si discusse molto di rappresentazione. In sintesi, ci si chiedeva quanto i fenomeni – che Kant distingueva dalle cose in quanto tali (le cose in sé) – fossero oggetti veri, reali, e quanto e in che misura fossero conoscibili. Ci hanno pensato poi gli idealisti – Fichte, Schelling e Hegel – a vanificare questa distinzione tanto cara al criticismo kantiano. Tuttavia, sebbene lo stesso Kant avesse precisato che il fenomeno è un oggetto reale, mai sarebbero stati d’accordo fino in fondo sul concetto di rappresentazione.



Duecento anni dopo, in piena crisi dei corpi intermedi e dei soggetti di rappresentanza, una riflessione sulla rappresentazione non è poi così inutile. L’esercizio del mandato dei soggetti di rappresentanza poggia infatti su un’idea di rappresentazione che questi hanno dei loro associati, che sono naturalmente i rappresentati. Ora, se pensiamo a chi rappresenta le imprese e in particolare a Confindustria – per la quale proprio in questi giorni ha avuto inizio un nuovo mandato – rispetto al quadriennio così importante che la attende e alla spaccatura che si racconta anche dal suo interno (si pensi alle parole di Luca di Montezemolo), vien da chiedersi di cosa possa avere bisogno oggi il soggetto di rappresentanza più importante dell’impresa italiana.



La crisi di rappresentanza delle associazioni di categoria sembra essere più profonda rispetto a quella che vivono le organizzazioni sindacali. Questo per più di un motivo, ma soprattutto perché da troppo tempo ne risultano evidenti le lungaggini, i costi di adesione sono elevati e, qualcuno dice, troppo alti rispetto ai servizi offerti (leggi Sergio Marchionne, ma anche Mauro Moretti), e per via della sempre più crescente contrattazione aziendale: a che serve a un’impresa che fa il suo contratto aziendale restare all’interno del sistema confindustriale? La risposta a questa domanda non può essere esaurita dal fatto che le associazioni, oltre al contratto, offrono anche servizi utili all’impresa, e non c’è dubbio che lo siano.



Il sussulto di Federmeccanica e del suo Manifesto per le Relazioni Industriali, va letto in ragione del fatto che negli anni della crisi le retribuzioni pro-capite sono cresciute in termini reali del 6,5% mentre la ricchezza complessivamente prodotta dal settore è diminuita del 18%, settore che ha inoltre perso circa un quarto del suo capitale e 250.000 posti di lavoro. Per troppo tempo, l’impresa in Italia è stata la “vacca da mungere” – espressione cara a molti sindacalisti di ieri -, avversata sul piano della sua dignità di attore sociale (imprenditori ladri, evasori e schiavisti) e vessata da un Fisco che ha rastrellato finché ha potuto.

C’è voluta una dichiarazione di Susanna Camusso nel 2012 (“bisogna salvare l’impresa per salvare il lavoro”) per far cadere quell’argine che impediva al decisore politico di intervenire con provvedimenti che alleggerissero la morsa dello Stato sul sistema imprese, cosa che ha fatto l’esecutivo guidato da Matteo Renzi che, ma guarda un po’, è per questo chiamato in alcuni ambienti “il Governo di Confindustria”.

Se consideriamo soprattutto quest’ultimo punto, al di là delle scelte che saranno fatte sul piano programmatico, è evidente quanto la Confindustria – ammesso e non concesso che al suo interno abbia una rappresentazione chiara di ciò che è chiamata a rappresentare – debba lavorare per affermare in Italia i valori dell’impresa. Ciò può far bene all’intero movimento sindacale: non si tratta di fare battaglie per ridurre i salari, ma di promuovere un’idea di impresa – una rappresentazione di essa – come attore sociale che vive sia grazie a chi investe, sia grazie a chi ci lavora, e che è un bene prezioso da tutelare, perché fino a quando può produrre ricchezza, la può distribuire.

Non era difficile arrivarci, tuttavia oggi ci siamo accorti tutti che la distribuzione della ricchezza non è una variabile indipendente. È già qualcosa.

 

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