Come comunicato ieri da Istat, a marzo 2016 la produzione industriale ha segnato una variazione nulla rispetto a febbraio e una crescita dello 0,5% rispetto a marzo 2015; nell’insieme del primo trimestre dell’anno, la produzione aumenta dello 0,7% rispetto al trimestre precedente e dell’1,6% rispetto all’anno precedente. Le comunicazioni dell’Istituto nazionale di statistica sono state precedute da un’intervista che il Ministro Padoan ha rilasciato al Corriere della Sera – pubblicata domenica – che ha riportato la discussione sui numeri della crescita economica a livello europeo: Irlanda +7,8%, Spagna +3,2%, Olanda e GB +1,9%, Portogallo +1,4%, Germania e Francia +1,3%; e Italia +0,8%. Naturalmente sono molti i commentatori che imputano alle riforme sbagliate o parziali dell’esecutivo tale deludente performance della nostra economia. Ma davvero la scarsa crescita è il prodotto di riforme inadeguate?



Se guardiamo alle economie avanzate in Europa e che hanno retto meglio all’urto della crisi economica, i casi tedesco e inglese sono i più interessanti. A proposito di Gran Bretagna, si ricorderà che il processo di industrializzazione è iniziato proprio lì. E che, se c’è una cosa che contraddistingue gli inglesi, è proprio la spinta verso l’innovazione e la trasformazione. Questa sorta di impulso innovativo al cambiamento è un fattore endogeno, intrinseco, come direbbe Schumpeter, non a caso più volte riesumato da Marchionne. Il grande economista austriaco così scriveva in una delle sue opere maggiori: “Il processo del cambiamento industriale rivoluziona continuamente la struttura economica dal suo interno, distruggendo continuamente la vecchia e creando continuamente una nuova. Questo processo di distruzione creativa rappresenta l’essenza stessa del capitalismo. Il capitalismo è questo, e le aziende che operano secondo le sue regole si devono adeguare”.



Storicamente, l’economia italiana sembra tuttavia muoversi in altro modo. In Italia, il mutamento dell’industria e dell’impresa avviene solo quando cambia lo scenario economico. Orientativamente, fino a quando l’economia garantisce una situazione di equilibrio, impresa e industria tendono a mantenere questo equilibrio. Quando la situazione esternamente cambia le carte in tavola, allora interviene un fattore esogeno, esterno, che rivela l’impossibilità di continuare in quella direzione. È questo fattore a generare mutamento.

Se prendiamo ad esempio la meccanizzazione del tessile – la nostra prima grande attività manifatturiera a diventare industria – questa inizia a grandi linee a metà dell’800; c’è una grandissima trasformazione in senso industriale, nasce il sistema di fabbrica della produzione e dell’attività produttiva; cambiano le organizzazione aziendali, cambiano le tecnologie. Ma questo cambiamento non nasce per la spinta propulsiva dell’imprenditore che prima gestiva una filanda a fuoco continuo e poi – essendoci il vapore – la gestisce col vapore. Ovvero: il cambiamento non nasce dalla spinta verso l’innovazione, il cambiamento nasce quando l’imprenditore è costretto a cambiare, quando non ha più scelta, quando o cambia o chiude.



L’utilizzo del vapore abbassa notevolmente i costi di produzione: ecco perché l’imprenditore cambia, complice una grande crisi di produzione della materia prima, il bozzolo, che essendo importato dalla Cina ha costi molto alti. Ecco che il processo di trasformazione industriale in questo caso non è endogeno: l’imprenditore non è mosso dalla voglia di innovare perché consapevole che l’innovazione gli permette di fare un prodotto migliore e che magari costa anche meno. La causa del processo è esogena: l’imprenditore non può più andare avanti come prima – con la filanda a fuoco continuo – perché non ci sta più dentro con i costi di produzione.

Questo è un fattore decisivo ed è lo stesso problema che ci troviamo oggi: l’impresa italiana è ferma ai vecchi modi di produrre. Ma oggi, drammaticamente, se non è in grado di trasformarsi sarà costretta a chiudere i battenti.

Il problema fondamentale che attraversa la storia economica di questo Paese è che tutti i processi di trasformazione strutturale avvengono per qualche fattore di natura esterna. Come oggi. Certamente non mancano delle eccellenze: il mondo non avrebbe conosciuto il made in Italy. Ma restano, appunto, delle eccezioni. I dati relativi al costo del lavoro per unità di prodotto (clup) sono eloquenti: in Italia, il clup è superiore del 40% rispetto alla Germania e del 30% rispetto a GB e Francia. Consideriamo anche che il nostro Paese, che resta tra gli 8 più industrializzati del mondo, è 43° nel ranking sulla competitività del World Economic Forum di Ginevra.

L’Italia ha bisogno di crescere sul piano della cultura economica e, in particolare, della cultura d’impresa. Del resto, a oggi, l’impresa in questo Paese è sempre stata vessata, dal fisco e dal sindacato. Oggi abbiamo più che mai bisogno di cambiare paradigma.

 

Twitter @sabella_thinkin