Questa volta sarà dura, per i liberisti talebani, chiedersi quale sia “l’interesse nazionale”: nel caso dell’Ilva, è chiaro. Innanzitutto salvare 12 mila posti di lavoro nell’area di Taranto, pregiudicati da un cumulo di nefandezze tra cui quelle originate sicuramente dall’inefficienza e dalla burocrazia eguagliano ormai quelle nate probabilmente dal malaffare. E poi difendere dal rischio dello smantellamento e della ruggine, nel quale potrebbe sprofondare un impianto produttivo strategico per il Paese, la più grande e potenzialmente efficiente acciaieria d’Europa, potenzialmente anche tra le meno inquinanti se – come predica invano da tempo il governatore della Puglia Michele Emiliano – la si alimentasse col gas del gasdotto Tap e non più con gli altri combustibili più tossici che si adoperano oggi. Infine – ma ovviamente su questo punto c’è polemica – tenere le radici della fabbrica in terra e proprietà italiane: perché dipendere totalmente dall’estero per una risorsa chiave come l’acciaio un tempo non sarebbe stato considerato prudente da nessuna ideologia.



Stabilito qual è l’interesse nazionale, sono invece di incerta risposti altri tre quesiti sul futuro dell’Ilva: 1) quale sia la consapevolezza del governo sul tema, al di là dello “storytelling”; 2) quale sia la consapevolezza della magistratura sul ruolo nocivo che stanno avendo i suoi tempi nel disbrigo del vespaio di cause che s’intrecciano sulle sorti di Taranto; 3) quale sia l’animus di alcuni tra i candidati concorrenti all’Ilva delle due cordate contrapposte che si sono delineate: Arcelor-Mittal con Marcegaglia da una parte, Arvedi con Del Vecchio dall’altra.



Il governo continua a dettare tempi assurdamente rapidi e a non chiarire che, ovviamente, la prima fase della “ri-privatizzazione” non potrà che essere un affitto d’azienda, visto che la proprietà del bene è ancora contesa tra i vecchi azionisti privati Riva e Amenduni, che si considerano ingiustamente espropriati, e lo Stato. Un processo sulle decisioni che hanno portato al commissariamento e all’esproprio dei Riva non è ancora nemmeno iniziato; e se a questa premessa impediente si aggiunge l’enigma ambientale (a quali condizioni gli impianti potranno riprendere la produzione?) e il problema della bonifica sul pregresso, si capisce che la produttività futura di Taranto è sotto ipoteca. Ma questo non lo dicono né il governo, né i commissari, che continuano ad attendere per il 23 giugno offerte di acquisto che come tali non potranno essere formulate: tutt’al più, offerte d’affitto con stima di valore di un futuro acquisto.



La magistratura procede non a rilento: a passo di lumaca. Anche sul fronte penale, rilevantissimo per i diritti dei Riva, la cui innocenza per ora va presunta ed è infatti stata presunta dai giudici svizzeri, che hanno vietato il rimpatrio dei fondi che il governo italiano pretendeva di acquisire (1,2 miliardi di euro che sonnecchiano sereni nei forzieri delle banche elvetiche dov’erano stati accumulati). Senza sentenze non si va da nessuna parte. Impensabile che su questa vicenda le toghe possano fare uno sconto di pena alla pena delle loro lungaggini. Ma che creassero una corsia preferenziale vera sarebbe il minimo.

Infine, gli attori in commedia. I due soggetti al di sopra di ogni sospetto sono Arvedi e Marcegaglia, ahimè contrapposti. Il primo sa il fatto suo, ha tecnologia e competenza, è forte anche se non fortissimo, e vuole comprare per gestire; il secondo è a sua volta competente, strutturato e forte, e vuole compartecipare all’acquisto per garantirsi forniture stabili (e se un industriale privato vuole comprarsi l’Ilva per garantirsi le forniture, si azzardi chiunque a dire che un’azienda siderurgica a capitale italiano non sia strategica per il Paese!). Il potente tandem Arcelor-Mittal è invece a caccia di capacità produttiva da controllare, non da accrescere e forse addirittura da ridurre, visto che oggi il mondo sovrabbonda di prodotto. C’è da fidarsi fino a un certo punto: sono bravi, certo, ma in molti quadranti geo-economici hanno dimostrato di non andare per il sottile, nella gestione dell’impatto sociale delle loro scelte.

C’è poi Del Vecchio: il suo blasonato scendere in campo con Arvedi aggiunge senza dubbio preziose risorse finanziarie, ma nasce da un movente dichiarato un po’ surreale, le origini pugliesi dell’imprenditore-martinitt, tanto da farsi domandare se è una boutade che copra altri interessi o se è la verità. Lo stesso Del Vecchio che si fece pregare moltissimo per entrare in Alitalia non esiterebbe oggi a scucire molti soldi in più per una fettina di Ilva: in nome delle orecchiette e dei lampascioni? Ma la domanda, in sé legittima, non lo è del tutto perché in fondo Del Vecchio ha bene il diritto di fare ciò che vuole dei suoi soldi. 

Il convitato di pietra è la Cassa depositi e prestiti, che entrambe le cordate rivendicano nella propria compagine: non ha ancora scoperto le sue carte e non si capisce, anzi, quali carte abbia e quali intenzioni di usarle stia accarezzando. La vicenda conferma la mancanza di qualsiasi visione di politica industriale nel governo. Non c’era ai tempi del ministro Guidi, meno che mai ai tempi del pseudo-efficiente interventismo del superconsulente Andrea Guerra, non si vede oggi.

L’unica novità positiva è l’avvento di un personaggio sulla poltrona che fu della ministra vilipesa da un fidanzato squalificante, un personaggio indubbiamente preparato e dotato: Carlo Calenda, il nuovo ministro, che sull’Ilva non si è ancora pronunciato. Si sa che è un liberista, ma si sa che ama il made in Italy. Finora ha fatto bene ovunque si sia applicato, e se non fosse stato dapprima strappato alle cure dell’export italiano nel mondo per essere deportato a Bruxelles e poi tirato via da Bruxelles per essere rimesso a Roma, avrebbe anche in Europa dimostrato il suo valore. C’è da sperare che lo lascino tranquillo a fare il suo mestiere per un po’ di tempo, e che raddrizzi il tortuoso percorso che altri maldestramente hanno disegnato per il futuro dell’Ilva.

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