Le notizie sono due. Una è ovvia ma fa effetto: Confindustria voterà “sì” al referendum costituzionale. L’altra fa meno effetto ma è anche molto meno ovvia, ed è una prima, piccola, firma di Vincenzo Boccia, il neopresidente insediatosi formalmente solo oggi: un forte e non convenzionale appello per la cultura, in tutte le sue accezioni, la cultura d’impresa, tra digitale, governance, internazionalizzazione e finanza alternativa; e il turismo, il made in Italy dello stile di vita, e quindi l’accoglienza. Il tutto suggellato dalla presenza del ministro competente, Dario Franceschini, accanto al ministro dello Sviluppo Carlo Calenda, che tradizionalmente è “padrone di casa” nella casa degli industriali.



A parte questo, la scenografia dell’Auditorium di Renzo Piano, dove si sono riuniti ieri gli industriali, non ha deluso i fan di Boccia – il neopresidente parla molto bene, sa andare con disinvoltura oltre il testo scritto – peraltro bello, completo e sinceramente emozionato – e non fa certo rimpiangere le esitazioni del primo Squinzi, incerto davanti al gobbo elettronico di quattro anni fa.



Ma non è stato nemmeno un trionfale “discorso del re”, perché se non c’era balbuzie ideologica c’erano purtroppo in sala tracce visibili della spaccatura di cui questa presidenza è figlia, con un 33% degli elettori che, nell’assemblea privata di ieri, si sono espressi contro o si sono astenuti, mai successo nella storia di Confindustria, a sancire che un terzo degli imprenditori associati in viale dell’Astronomia non si fida di chi dovrà guidarli per i prossimi, cruciali, quattro anni.

Grasso che cola per il premier, convitato (e vincitore) di pietra del giorno. Il “sì” annunciato da Boccia sul referendum autunnale non lo rassicura più di tanto, perché era scontato dai più e comunque autorevolmente preceduto dall'”endorsment” dato sul Corriere della Sera di ieri dal presidente dell’Assolombarda Gianfelice Rocca, capo dello schieramento anti-Boccia, ma su questo concorde con il neoleader (nonché vero perdente della disfida elettorale appena conclusa…). Però è comunque un sì prezioso, tanto più che la Confindustria, con i suoi media diretti del Gruppo Sole 24 Ore, e con la forte influenza di tanti suoi effettivi nella grande editoria italiana, riesce ancora a ispirare molta opinione e ad attivare molti opinion-maker. 



“Per noi le riforme non hanno un nome, ma un oggetto. Non conta chi le fa, ma come sono fatte”, legge Boccia: “Confindustria si batte fin dal 2010 per superare il bicameralismo perfetto e riformare il Titolo V della Costituzione. Con soddisfazione, oggi, vediamo che questo traguardo è a portata di mano”. Più chiaro di così.

Nel merito delle altre parti del discorso – e pensando all’agenda dei prossimi mesi – il presidente Boccia si preannuncia “totus tuus” rispetto a Renzi non solo sulle riforme ma anche sulle relazioni industriali, dove anzi la relazione stanga i sindacati, arroccatisi sulla conferma dei contratti nazionali. Bisogna premiare la produttività con salari variabili. Un discorso che Agnelli faceva negli anni Settanta, andato molto avanti da allora, ma frenato dal fatto che le paghe base non possono scendere più di tanto per dar spazio ai forti incrementi possibili per le aziende che fanno molti utili. E in quelle che non ne fanno, o addirittura per qualche esercizio perdono soldi? Salari da fame?

Confindustria è invece prudente nell’approvare tutta la politica fiscale del governo: per una Ires al 24% dal 2017 che piace, ci sono e restano troppi prelievi locali e troppi oneri, monetari o non, da malaburocrazia, e c’è poca spending review. 

Nell’insieme, gli sforzi dell’ex Rottamatore sulla politica economica sono insomma encomiati, ma serpeggia tra le righe l’ansia che la spinta riformatrice si stia esaurendo e forse, sotto sotto, l’infastidita sensazione di non contare abbastanza agli occhi del premier.

Un’altra sorpresina – ma non bisogna dar troppo peso alle parole – è stata l’apertura a un’imposta patrimoniale, quando Boccia auspica che si sposti “il carico fiscale alleggerendo quello sul lavoro e sulle imprese e aumentando quello sulle cose”. E sempre sul fronte fiscale bene-bravo-bis a Renzi per il bonus ricerca e il superammortamento per gli investimenti… Naturalmente senza pregiudicare – per finanziare questi incentivi – i saldi di finanza pubblica che ci tengono in Europa: e come fare il miracolo? Semplice, con una “ricomposizione delle voci di spesa e di entrata”, “senza creare nuovo deficit”. Basterà la spending review? Di sicuro, gli industriali la invocano a gran voce, sulla spesa pubblica.

Ancora un paio di piccole sorprese: piccolo non è più bello, piccolo è una fase nella crescita di un’impresa; il che, detto da un piccolo imprenditore, sorprende. E se entra nel capitale di un’impresa un fondo di private equity non è un problema (“le imprese diventino meno bancocentriche”), per quanto le banche siano invitate a continuare a fare il loro mestiere di finanziatrici primarie.

Modeste le annotazioni possibili sugli altri interventi, scontato il caloroso applauso per la presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, calligrafico il discorso dello stesso Franceschini. Meno convenzionale, invece, quello del neo ministro allo Sviluppo Carlo Calenda, chiamato a sostituire senza imbarazzi per nessuno l’ex confindustrialina Federica Guidi. E Caldenda ha parlato da manager liberista qual è: bene, se continuerà a lavorare validamente come ha fatto da viceministro; e male se invece continuerà a pensare che “non esiste in un Paese moderno la possibilità di fare politica industriale se non con le imprese e per le imprese”. Parla così, il bravo ex direttore marketing della Ferrari, perché non ricorda più Machiavelli e la sua dimostrazione circa l’interferenza del “particulare” sull'”universale”. 

Le imprese, e chi le rappresenta, fanno legittimamente i loro interessi. Che non sono “tutti” gli interessi di una società, per quanto in certi casi convergano. Dunque spetta alla politica, anche quella industriale, trovare le sintesi: insieme con le imprese, certo, ma anche oltre i loro interessi e le loro stesse capacità, in una logica sussidiaria. Accade in Francia, accade in Gran Bretagna, in Germania, a Bruxelles: e non sono Paesi antiquati.

Ma la politica, interpellata, in questo periodo e su questi temi in Italia non risponde.