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Le recenti difficoltà che hanno caratterizzato il settore bancario europeo hanno evocato lo spettro di una Basilea 4. Tanto che il presidente dell’Associazione Bancaria Italiana Antonio Patuelli, nella recentissima assemblea annuale dell’associazione, ha messo le mani avanti dichiarando l’inasprimento delle regole sulla patrimonializzazione delle banche non necessario. Mentre soltanto qualche mese fa il presidente della Bce Mario Draghi (era lo scorso febbraio) aveva escluso la necessità di una Basilea 4. Ma che cosa sta ad indicare di preciso questa sigla?



Per capirlo bisogna fare qualche passo indietro e tornare al 2007 quando entrò in vigore Basilea 2: data che segnò l’inizio di una rivoluzione nel calcolo del rischio del credito. Questa sigla, un po’ criptica, sta ad indicare l’adozione di un insieme di regole univoche per il sistema bancario studiate per garantire la stabilità dell’economia in un momento in cui diversi fattori macroeconomici uniti ad alcune politiche bancarie poco accorte minacciavano tale stabilità. Si tratta, di fatto, di un accordo di vigilanza prudenziale che interessa i requisiti patrimoniali delle banche. L’intesa, siglata nella tranquilla cittadina svizzera (dove ha sede la Banca dei Regolamenti Internazionali) consiste nell’indicazione di nuovi metodi per il calcolo della dotazione minima di capitale che gli istituti devono avere a fronte del rischio di credito. Tradotto: le banche aderenti, in ragione di questo accordo, sono tenute ad accantonare quote di capitale proporzionate al rischio assunto e valutato attraverso lo strumento del rating.



L’accordo arriva solo a inizi anni Duemila, ma gli effetti negativi dei tassi di default sulle performance del sistema creditizio, erano da tempo oggetto di particolari attenzioni da parte delle istituzioni. L’intesa precedente, Basilea 1, si basava infatti su una visione semplicistica dell’attività bancaria e della rischiosità delle aziende. E, a partire dagli anni Novanta, la gestione del credito da parte di numerose banche si rivelò – per usare un eufemismo – poco prudente. È così che il Comitato di Basilea, per tamponare questa situazione e contenere il rischio connesso, preparò un nuovo kit di norme basate sui cosiddetti “rating interni”. Che cosa si intende per sistema di rating?



Secondo la definizione data da Banca d’Italia si tratta dell’insieme strutturato e documentato delle metodologie, dei processi organizzativi e di controllo, delle modalità di organizzazione delle basi dati che permette la raccolta delle informazioni rilevanti e la loro elaborazione per la formulazione di valutazioni sintetiche del merito di credito di un soggetto affidato e della rischiosità delle singole operazioni creditizie. “Il rischio connesso con un’esposizione è espresso attraverso quattro componenti: probabilità di default, che attiene al debitore; tasso di perdita in caso di default, esposizione al momento del default e scadenza effettiva, che attengono alla singola operazione”, si legge nel documento della Vigilanza italiana sul Recepimento della nuova regolamentazione prudenziale internazionale. Attraverso il sistema di rating la banca attribuisce al debitore il grado interno di merito creditizio (rating), cioè ordina le controparti in relazione alla loro rischiosità e perviene a una stima delle componenti di rischio.

A ogni classe di rating è associata una probabilità di default e le classi di rating devono essere ordinate in funzione del rischio creditizio. Naturalmente la normativa prevede piccole variazioni dell’attribuzione del rating in base al soggetto che si sta giudicando. Per esempio nel caso di clientela al dettaglio il rating può essere attribuito in base non solo al rischio specifico del debitore ma anche alle caratteristiche dell’operazione effettuata. E così via. Secondo il Comitato di Basilea i vantaggi dei rating interni sono molteplici. Questi consentono di stabilire i requisiti per l’approvazione dei fidi e di effettuare le analisi di “pricing” e di allocazione del capitale; sono in grado di incorporare informazioni supplementari (per esempio iil monitoraggio dei conti dei clienti e una conoscenza più approfondita delle garanzie personali e reali); coprono una gamma più vasta di debitori e permettono alle banche di svincolarsi, almeno in parte, dalle agenzie esterne.

Non manca però anche qualche criticità. I rating interni rendono la comparabilità fra istituzioni e Paese poco praticabile per la mancanza di omogeneità fra sistemi di banche diverse. Basilea 2, nonostante gli sforzi messi in campo, si rivelò un sistema tutt’altro che granitico. E con l’avvento della crisi finanziaria risultò inadeguato. Da qui l’esigenza di un aggiornamento metodologico che consentisse di migliorare la capacità del settore bancario di assorbire shock derivanti dalle tensioni economiche e finanziarie, di migliorare la gestione del rischio e la governance e di rafforzare la trasparenza e l’informativa delle banche. Due le principali riforme (approvate nel 2010 dai leaders del G20 al summit di Seul): la prima di stampo microprudenziale, ossia relativa alla regolamentazione a livello di singole banche il cui scopo è rafforzare la resistenza dei singoli istituti bancari alle fasi di stress. La seconda è invece di ordine macroprudenziale, cioè inerente ai rischi a livello di sistema che possono verificarsi nel settore bancario, nonché l’amplificazione di tali rischi nel tempo. In pratica la Banca Centrale Europea, che vigila sugli istituti Ue di maggiori dimensioni, ha praticato simulazioni sulle singole banche incrociando i dati relativi a requisiti finanziari e patrimoniali con l’ipotesi di uno scenario economico particolarmente avverso (non presente, ma che potrebbe verificarsi in futuro).

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