Per tradizione il premier chiude il Workshop Ambrosetti e ne distilla la headline. Matteo Renzi, invece, è intervenuto ieri e domani il “risultato finale” della tre giorni di Cernobbio sarà assestato dal ministro per lo Sviluppo economico Carlo Calenda, affiancato dal presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, e dal segretario generale della Cgil Susanna Camusso. I vincoli imposti alla scaletta dall’agenda internazionale del governo non paiono tuttavia fuori luogo.
Nel settembre 2016 al centro del tavolo c’è la politica industriale, anzi: un governo in surplace sui macro-dati e ancora lontano dall’avere idee chiare sulla legge di stabilità attende volentieri input dai “produttori”. I quali hanno fatto il possibile per non arrivare a Cernobbio a mani vuote e con il solo cappello fiscale in mano. La proposta congiunta sulla gestione delle crisi industriali, concordata ieri fra le parti sociali, conferma sicuramente un clima di dialogo. Qualche commentatore si è spinto – non del tutto consideratamente – a riparlare di “concertazione” come quella tenuta a battesimo vent’anni fa da Carlo Azeglio Ciampi.
E’ comunque un fatto che l’accordo ha riguardato le “crisi” (come quelle dell’area ex Fiat di Termini Imerese o dell’Ilva). E’ davvero “politica industriale”?. Lo è certamente per la Cgil – preoccupata per gli ex lavoratori espulsi da recessione e globalizzazione – e e forse lo è anche per una parte della burocrazia confindustriale (anche se la Fiat non è più iscritta e l’industria italiana dell’auto è emigrata negli Usa e paga le tasse in Olanda). Più difficile chamarla “politica industriale” per quelle 25mila imprese che – ricordava ieri Giorgio Vittadini su ilussidiario.net – sono oggi il vero “Made in Italy”: anzi sono Azienda-Italia tout court, riempiendo le cifre dell’export e quindi del Pil.
Boccia, aprendo la stagione autunnale al Meeting di Rimini, è stato per la verità chiaro quando ha invitato il governo a virare la politica finanziaria dagli stimoli alla domanda (“80 euro” e Jobs Act votato alla creazione di nuova occupazione) verso il sostegno dell’offerta (cioé di quelle imprese che negli ultimi anni hanno tenuto occupati i loro dipendenti e difeso le posizioni sui mercati internazionali). Al Meeting altri leader industriali hanno difeso il ruolo del sistema manifatturiero rilanciando al governo la sfida: fidatevi di noi imprenditori, puntate su di noi le risorse della legge di stabilità.
“L’internazionalizzazione non è forse un investimento?”, ha detto il presidente di FederlegnoArredo, Roberto Snaidero, a chi gli segnalava qualche accenno polemico sull’impegno del fronte imprenditoriale per la ripresa (tra due mesi il Salone del Mobile aprirà per la prima volta i battenti in Cina). “Per Industria 4.0 noi siamo pronti”, ha detto il neo-presidente dell’Ucimu, Massimo Carboniero, in margine alla presentazione del Rapporto 2016 della Fondazione per la Sussidiarietà su politica industriale e nuovo strumenti d selezione del merito. La digitalizzazione dell’industria – anche di quella piccola e media che compone il comparto italiano della macchina utensile – non è uno slogan: non lo è per i figli e nipoti di produttori di torni e piegatrici che oggi progettano, realizzano e vendono in tutto il mondo robot che per anni vengono poi tenuto sotto controllo in remoto “24 X 7”.
Quando FederlegnoArredo chiede la conferma di “bonus mobili” e “bonus famiglie” – per sostenere il fatturato interno dei componenti d’arredo – guarda alla competitività esterna del design Made in Italy. Quando Ucimu chiede la conferma e il rafforzamento del “superammortamento” per l’acquisto di “sistemi per produrre” – sollecita lo svecchiamento tecnologico del parco-macchine dell’intera industria italiana.
Non tutti, peraltro, sembrano suonare la stessa musica, al festival autunnale della politica industriale: neppure nel campo che un tempo si sarebbe definito “padronale”. Alberto Alesina e Francesco Giavazzi hanno proposto sul Corriere della Sera una loro visione della “politica per l’offerta”: non imperniata sull’incentivo fiscale diretto, ancorché selettivo, alle imprese. Per i due economisti ultra-liberisti la priorità strategica non è aiutare le Pmi e il “quarto capitalismo” italiano, quando ricostruire “grandi aziende”. Se quindi gli incentivi fiscali diretti dovrebbero guardare alle fusioni//acquisizioni, la strumentazione di politica industriale dovrebbe privilegiare le liberalizzazioni.
L’approccio è ortodosso rispetto alle premesse di cultura economica dei Alesina e Giavazzi: il mercato finanziario – anche otto anni dopo il crack Lehman Brothers – resta centrale nel valutare il merito delle imprese e nell’orientare le loro strategie. E dall’altro lato l’unica funzione accettabile di stimolo all’economia da parte di uno Stato è la rimozione di ogni ostacolo alla concorrenza. In concreto: due o tre Pmi vanno sollecitate a fondersi e quindi – tendenzialmente – ad aprire la loro proprietà a investitori esterni e infine a quotarsi in Borsa. E aiutarle a essere competitive vuol dire ad esempio concentrare le utility ex municipali italiane (con il prevedibile coinvolgimento di gruppi esteri) per far concorrenza a Eni ed Enel e abbassare – si suppone – il prezzo dell’energia per il Made in Italy.
Il dibattito è aperto. E non potrà prolungarsi all’infinito.