Chi cambia la vecchia strada per la nuova sa quel che lascia ma non sa quel che trova. Quanti di noi possono dire di non aver mai ricevuto questo ammonimento a casa, a scuola, sul lavoro? Questo pseudo pezzo di saggezza veniva propinato come una medicina omeopatica ogni qualvolta si faceva qualcosa di testa propria e, disgraziatamente, il risultato non era quello atteso. Dunque, mai lasciare la vecchia strada per la nuova eccetera eccetera. Come si forma un popolo d’innovatori con una mentalità del genere? Come si alimenta il gusto per il rischio quando il consiglio più prezioso è non lasciare le vecchie abitudini per paura di trovare qualcosa di spiacevole nelle nuove? Come s’infonde il coraggio che serve a prendere decisioni controcorrente?
Semplice: non si può. E infatti a dispetto della fama che ci siamo auto-attribuiti di santi e navigatori non siamo né gli uni, né gli altri. Forse lo siamo stati in un tempo che potremmo definire eroico. Ma da molti anni proprio non possiamo riconoscerci nel ritratto che qualcuno ha fatto del nostro popolo che, invece, odia le sorprese, ama la comodità, teme i cambiamenti. D’altra parte chi ha mai biasimato chi fa come si è sempre fatto? Non è vero che il mestiere del riformatore in Italia è il più difficile di tutti e quando sembra che si sia fatto un passo avanti un esercito di resistenti non trova pace finché non se ne fanno due indietro? L’esperienza insegna che in Italia solo chi non fa non sbaglia. Mentre chi fa si espone al giudizio e alla sanzione.
Accade anche nel mondo dell’impresa dove da una parte s’invoca l’importanza di osare e dall’altra si punisce con ferocia ogni errore. Peccato che nessuno abbia la ricetta del successo al primo colpo e forse neanche al secondo. Innovare vuol dire provare e riprovare: con giudizio, certo, ma anche con una buona dose d’incoscienza senza la quale non progrediremmo mai. La sanzione più temuta è quella che segue il fallimento. Un’onta che macchia l’impresa, l’imprenditore e spesso anche la sua famiglia. Si viene relegati nel campo dei paria e privati dell’onore, del credito, della possibilità di ripartenza. Fallire vuol dire un po’ morire. Metaforicamente e non solo. Si fa di tutto per evitarlo commettendo sbagli che si pagano a caro prezzo.
Ecco perché va salutata con favore la nuova legge che modifica il tristo istituto a cominciare dal nome che diventa liquidazione giudiziale: non bellissimo e di stampo burocratico, ma certamente meno offensivo e travolgente dell’altro. Incrociare una crisi non dovrebbe essere più un dramma. E si potrà prevenire l’insolvenza o almeno gestirla con strumenti adeguati.
Si tratta di una bella notizia perché s’introducono principi che non considerano l’impresa come un covo di malaffare e non bollano titolare e dirigenti come approfittatori che non si vede l’ora di mortificare. Questo non vuol dire che non si debba punire con rigore chi imbroglia e delinque. Ma si concede il beneficio della buona fede che riguarda la stragrande maggioranza dei casi. Si attenua un poco, e forse è un buon inizio, quel pregiudizio anti-industriale che tanti danni provoca al sistema economico del Paese e che purtroppo persiste in altre aree della giurisdizione e dell’opinione pubblica confermando l’aspetto contraddittorio del nostro ordinamento.
L’impresa innovativa è un valore per l’intera società: ostacolarne lo sviluppo è il vero delitto.