Nel pomeriggio del 27 settembre, nella piccola ma elegante sala delle conferenze della Konrad Adenauer Stiftung (uno maggiori think tank tedeschi), si teneva una riunione con il direttore del Dipartimento di Politica dell’istituto, Matthias Schäfer, venuto appositamente da Berlino. L’incontro era programmato da tempo e si sarebbe tenuto quale che fosse stato il risultato delle elezioni di domenica 24 settembre. Schäfer ha dipinto un quadro inquietante della situazione politica tedesca e delle sue implicazioni sul resto dell’Unione europea. Ramificazioni non solo economiche (ho trattato di quelle sull’economia italiana su Avvenire del 27 settembre), ma soprattutto politiche.
Su alcune questioni di fondo (ad esempio, quelle dell’immigrazione), il ceto politico dell’Europa non sembra essere più in contatto con i propri cittadini. Ha concluso, forse senza saperlo (data la differenza di età), citando il titolo di un libro di Robert Putman di circa tre decenni fa, Making Democracy Work: Civic Traditions in Modern Italy. In breve, saranno tempi difficili per tutti se il ceto politico europeo non riesce a making democracy work (a fare funzionare la democrazia). Il modello bipartitico o bipolare, che ha caratterizzato numerosi Paesi europei dal dopoguerra, sembra stia franando un po’ dappertutto, e la stessa idea nata in Europa di “Stato-Nazione” è in crisi, pullulano movimenti e anche partiti contrari alla prosecuzione del processo di integrazione europea. In questo quadro, è difficile, ove non impossibile, “fare politica economica” e il continente ristagna, ove non peggio: tutti i maggiori centri di analisi previsionale quantitativa sostengono che nel 2018 la crescita nell’eurozona, ad esempio, sarà inferiore a quella sfiorata nel 2017. Un ragionamento ineccepibile, non solo sensato.
Mentre Schäfer faceva la sua presentazione e interloquiva con gli ospiti della Konrad Adenauer Stiftung, nelle redazioni dei principali giornali sia cartacei, sia on line si stavano battendo sui PC articoli, analisi e commenti sull’accordo Fincantieri-Stx e sulla maxi alleanza Alstom-Siemens. Due intese che danno il segno di forte vitalità nell’industria europea.
Sono passati dodici anni da quando il “Rapport Beffa” (dal nome di un capitano d’industria francese) delineò le linee di una politica industriale europea per l’innovazione e la crescita. Allora, in Italia, fu oggetto dibattito solo sul bimestrale Ideazione. Quasi non se ne parlò a livello europeo: l’agenzia per l’innovazione, creata in Francia, opera unicamente in ambito nazionale. Un secondo rapporto commissionato circa otto anni fa sempre dall’Eliseo (Il “Rapport Gallois”) non ha quasi avuto riscontro a livello europeo. Un recente lavoro di Salvatore Zecchini (ex Segretario Generale dell’Ocse) è stato discusso in presentazioni al Cnel, alla Fondazione Einaudi e altre sedi, ma virtualmente ignorato dai media e della politica.
Occorre riconoscere che in via Molise (sede del ministero dello Sviluppo economico) è stato di recente elaborato un programma e il dinamico Ministro Calenda ha ottenuto parte del finanziamento necessario a farlo decollare. Inoltre, dal suo scranno di Presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, che ha avuto competenze specifiche in materia, ha più volte insistito sulla necessità e urgenza di una politica industriale europea. E ancora, l’intesa Fincantieri-Stx non sarebbe avvenuta senza la mano dei Governi dei due Paesi (e senza il rafforzamento di quello italiano rispetto al francese dopo le elezioni tedesche e la difficoltà di una partnership Parigi-Berlino). Tuttavia l’alleanza Alstom-Siemens (e la nascita di un complesso ferroviario inferiore, al mondo, soltanto rispetto a quello cinese Crrc) è una pura operazione di mercato, in cui non sembra che i Governi abbiano messo mano.
Quindi, rispetto a una melanconica Europa politica, sempre più lontana dai sogni dei federalisti, vediamo i segni di un’industria europea che si raggruppa per rispondere all’integrazione dell’economia mondiale. In ritardo, ci si accorge che Jean Louis Beffa aveva ragione. Un’Europa strabica. Ma lo strabismo non è sempre un difetto.