L’Italia nel mondo e il mondo in Italia, da una parte. L’Europa nel mondo e il mondo in Europa, dall’altra. Se n’è parlato questo fine settimana in due appuntamenti ormai tradizionali come il convegno dei giovani imprenditori a Capri, giunto alla 32esima edizione, e il settimo forum italo-tedesco che si è tenuto a Bolzano tra le Confindustrie dei due Paesi con la più forte manifattura dell’Unione.
Dunque, un invito in entrambi i casi a mettere il naso fuori di casa propria perché in mondo interconnesso come quello generato dalla globalizzazione e dalle tecnologie nessuno può considerarsi un’isola e qualsiasi decisione impatta su altre secondo modi e percorsi che è difficile perfino immaginare. E, naturalmente, l’altro lato della medaglia che consiste nell’accettare chi il naso lo mette in casa nostra.
Il commercio, gli scambi, sono da sempre la linfa vitale dell’economia e del progresso. Quello che fino a qualche anno fa era considerato un’eccezione – pensare e agire in una dimensione internazionale – oggi è la regola. Anche la crisi ci ha fatto capire quanto sia interconnesso questo nostro globo dove uno tsunami finanziario nato negli Stati Uniti si è abbattuto con violenza da questa parte dell’Oceano.
Il mondo delle imprese se n’è accorto, e non da adesso. Vivendo in presa diretta gli alti e i bassi che accompagnano gli affari, gli organismi rappresentativi di chi lavora e produce si sono prima interrogati e poi dati da fare per non restare spiazzati in un gioco che diventa ogni giorno più duro e complesso; dove i partecipanti si moltiplicano a dismisura e i ruoli sono messi in continua discussione.
La scala minima per stare al tavolo dei grandi è quella continentale. Ne sono consapevoli le forze economiche molto più di quelle politiche ancora attratte da disegni separatisti più o meno accentuati come dimostrano la Brexit, i disordini in Spagna e perfino il referendum dolce di Veneto e Lombardia. Ma che senso ha dividersi in un contesto che premia i più grandi?
Per fronteggiare l’arrembante America di Trump o l’ambiziosa Cina di Xi Jinping o la muscolosa Russia di Putin o l’enigmatica India di Modi l’Europa non può presentarsi nell’arena con l’abito di Arlecchino tutto rabberciato con alcune toppe che minacciano addirittura di staccarsi dal vestito. Ci vuole una copertura diversa, non proprio una corazza ma qualcosa che le assomigli molto.
Intanto che i governi cercano il loro punto di equilibrio tra un’elezione e l’altra, i corpi intermedi cercano di ragionare mettendo sul tavolo della discussione i temi caldi del momento come l’immigrazione, la sicurezza, le relazioni internazionali, il credito alle imprese, la crescita, l’occupazione, la lotta alla povertà. E suggeriscono che per raggiungere meglio gli obiettivi sia utile una salda guida europea, unitaria.
Il nucleo forte di questa impostazione, che nasce sotto il cappello di Business Europe presieduto da Emma Marcegaglia, sono le organizzazioni industriali d’Italia con Vincenzo Boccia, di Germania con Dieter Kempf, di Francia con Pierre Gattaz e di Spagna con Juan Rosell. Tutte alle prese con gli stessi problemi di modernizzazione e potenziamento dei rispettivi apparati industriali.
Sì, perché si è capito che senza industria l’Europa è destinata declinare irrimediabilmente. Ed è intorno all’industria e ai suoi valori, comprensivi di società più giuste e inclusive, occorre rifondare un’Unione che oggi si distingue per le molte parole e i pochi fatti. Come dimostra l’insoddisfazione crescente della popolazione che si nutre di una protesta che non porta soluzioni.